dimanche 28 octobre 2018

Iniziativa popolare elvetica:"Il diritto svizzero anziché giudici stranieri (iniziativa per l'autodeterminazione)".

Ancora un'iniziativa della destra nostalgica del passato sulla quale i votanti elvetici dovranno esprimersi il prossimo 25 novembre. Voterò NO.

Questa iniziativa è assurda per moltissime ragioni. L'iniziativa, non facile da capire,  chiede di modificare la Costituzione Federale e oppone la Costituzione Federale elvetica al diritto internazionale.

L'iniziativa non riconosce che esiste complementarietà tra giurisprudenza internazionale e diritto  svizzero , afferma che il diritto elvetico può ignorare norme che proteggono le persone ( per esempio le norme ancorate nel diritto umanitario). In caso di contraddizione tra i due diritti dovrebbe prevalere il diritto elvetico e le norme prescritte dal diritto internazionale dovrebbero essere disattese. Questa è l'autodeterminazione che significa dare  ai cittadini elvetici l'ultima parola su tutte le decisioni politiche importanti. Questa autodeterminazione si concretizza  nella collaudata democrazia diretta. E' questa pratica che l'iniziativa si prefigge di difendere, ignorando per esempio che alle votazioni ( così si chiamano) sui referendum e le iniziative popolari, tipiche manifestazioni della cosiddetta democrazia diretta,   partecipa in media il 40% degli elettori. La maggioranza degli aventi diritto di voto non vota. Si potrebbe dire tanto peggio per loro , ossia per gli assenti, per chi non vota. L'assenteismo è un torto. Ma se la democrazia diretta è davvero importante non si capisce come mai solo il 40% degli inscritti nei cataloghi elettori vada a votare.

Di quale pilastro democratico si tratta? Si ignora che ci vogliono un sacco di soldi per influenzare l'opinione di chi va a votare ( per esempio per pagare i manifesti con i quali si tappezzano strade, piazze e monumenti) e che non tutti possono permettersi di partecipare alle campagne elettorali. Spesso, per non dire sempre,  prevalgono i più ricchi.  Infine non si dice che la formulazione delle iniziative implica lotte furibonde dietro le quinte. Le formulazioni delle domande poste al corpo elettorale  non sono banali. L'opinione pubblica può essere manipolata. Ci sono parecchi modi per manipolare l'opinione dei votanti.

L'iniziativa è uno scontro tra chi intende difendere il diritto del popolo  ( così ci si esprime) a intervenire nella vita politica preservando  una disposizione elettorale  tradizionale ( le iniziative e i referendum popolari) e chi invece crede nel valore dei trattati internazionali che attirano l'attenzione sulla protezione di determinate dimensioni , come per esempio la libera circolazione dei lavoratori. E' successo in tempi recenti che voti popolari non siano stati applicati perché contrari al diritto internazionale , mandando  su tutte le furie i tradizionalisti per i quali il cosiddetto " popolo" si sarebbe espresso nel risultato elettorale e la sua volontà non sarebbe stata rispettata in nome della superiorità dei trattati internazionali.

Questa è una vecchia storia, è una lotta tra campanilismo chiuso e internazionalismo aperto, tra localismo gretto e metropolitarismo flessibile, tra chiusura  comunitaria e apertura  progressista, tra città e campagna, tra gente delle montagne e gente dei centri urbani, tra grandi mercati e piccolo commercio, tra ciò che è vicino e ciò che è distante. Il locale si controlla bene. Quanto è distante invece sfugge , è critico. Si deve diffidare delle voci che vengono da via e non dal campanile, da  quanto coltivano i nostalgici alpini del passato idilliaco ( che idilliaco non era affatto). Il mondo agreste non era per nulla né dolce né delizioso, né bello. Beninteso non tutto quanto offre il mercato è bello. Si deve apprendere a essere critici nei confronti dei valori proposti, apprendere in ogni caso a pensare con la propria testa,  a giudicare. Ma non si apprende a essere critici restando ancorati ai modi tradizionali di vita, spesso ingiusti e ignobili. Non è tutto bello quel che sta altrove ma nemmeno è bello quel che si è vissuto e si crede, ci si illude,  di conoscere bene. I tratti peggiori della violenza locale sono spesso occultati, rimossi, come si dice con la fraseologia di una scienza apparsa  ai primi del Novecento. Si tramanda e si racconta una storia  epica di quanto successo negli anni addietro e si scorda che il mondo agreste era tutt'altro che idilliaco. Era invece aspro, duro, faticoso. I valori che si praticavano allora non erano quelli odierni, ma quei valori non erano affatto migliori di quelli in voga di questi tempi.

I promotori dell'iniziativa sottoposta al voto sostengono che il diritto costituzionale elvetico,  emanato su basi democratiche, è la fonte suprema di referenza della giustizia. Questo riviene a dire che il diritto elvetico è migliore di quello internazionale, che la giustizia praticata in Elvezia non necessita di nessun correttivo. Ancora una volta si batte questo chiodo, quello della perfezione dei prodotti elvetici perché frutto  della democrazia diretta, considerata come un modello di successo e di bontà del diritto e della giustizia . Si vende a tutto spiano questo argomento. Molti vi credono.

lundi 3 septembre 2018

Marco Malvaldi, A bocce ferme

Terminata un'altra lettura.  Questo è  un testo originale ma non è un capolavoro letterario; si tratta  di un giallo, opera di Marco Malvaldi. Titolo: "A bocce ferme", edizioni Sellerio, 2018, pagg. 223.


Il racconto riguarda l'assassinio di Corrado Alberto, proprietario della Farmesis, un'azienda farmaceutica del litorale toscano tra PISA  e Livorno. Parte della narrazione è incentrata sui quattro vecchietti, clienti abituali del Bar Lume , quattro toscanacci,  che aiutano Alice Martelli,  vice-questore,  fidanzata del barista Massimo, a risolvere il crimine, anzi il duplice crimine. Il libro ha pregi e difetti ma il giallo non è gran che. Ne girano di migliori in Italia. Penso per esempio a quelli di Maurizio Di Giovanni e alla sua serie di gialli napoletani. Il crimine toscano è avvenuto nel 1968 e i quattro vecchietti, allora giovani, hanno partecipato, ognuno  in un modo o in un altro, agli avvenimenti che hanno agitato il mondo scolastico di quel lontano periodo. In particolare si deve ricordare che a PISA c'è una università nonché la scuola normale, un istituto universitario di eccellenza e che a Pisa ci sono stati scontri violenti, si sono picchiati. I quattro non erano né alla Normale né all'Uni. Non mi conviene spiegare qui come mai si rievoca il 68 in questo giallo ma Malvaldi è bravo a ricostruire quei mesi e quegli anni, le illusioni di molti, le lotte, le battaglie condotte dal movimento studentesco e dalla classe operaia che allora c'era.


 Malvaldi è un attento osservatore. Le chiacchiere nel bar sono ricostruite con bravura. anche i movimenti dei quattro sono osservati e descritti molto bene ma il giallo non convince. C'è in ballo una questione di eredità tra il fondatore della Farmesis, il figlio putativo, un giornalista locale che da giovane faceva il rivoluzionario. Si passa da un tema all'altro , si è un poco strattonati.  Sono entrato nel giallo solo dopo metà libro. La lettura del libro non mi ha convinto, la vicenda mi ha coinvolto solo molto tardi verso la fine del libro, anche se talune pagine iniziali sono assai belle. Leggo questi gialli , come quelli di Camilleri o di Donna Leon, per gustare la ricchezza del mondo letterario italiano. Ci sono autori interessanti in diverse città, che descrivono quanto succede localmente e che mettono in evidenza le peculiarità ( gastronomiche, linguistiche, religiose, ecc.)  locali.  Per esempio Camilleri è immerso nel mondo siculo, Di Giovanni in quello napoletano, Malvaldi nel mondo toscano-tirrenico, ecc. E' davvero une delizia leggere questi autori. Non li cito tutti. Si viaggia in Italia.




dimanche 2 septembre 2018

La valutazione dei sistemi scolastici

Su Facebook  ho un gruppetto di interlocutori ferocemente opposti all'INVALSI ,  l'Istituto Nazionale italiano di valutazione della scuola situato a Roma, erede del CEDE , il Centro europeo dell'educazione che era a Frascati nella Villa Falconieri. Il gruppetto propone la chiusura delI'INVALSI accusato di essere la causa di molti mali di cui soffre il sistema scolastico italiano nonché di aggravare il malandazzo che impera nel sistema scolastico italiano , di non attenuarlo come invece si pretende che dovrebbe fare fornendo informazioni attendibili ai dirigenti politici sullo stato del sistema scolastico italiano, in realtà solo su quello delle scuole primarie e secondarie. Le indagini censuarie dell'Istituto sono criticate per lo stile con cui sono condotte, per lo spreco di soldi che rappresentano soprattutto perché scoprono  l'acqua calda, cioè cose che si sanno già da tempo anche senza le indagini. Ci si chiede dunque se le indagini dell'INVALSI servano a qualcosa e la risposta è negativa. Per finire si afferma anche che la valutazione non è oggettiva e si discetta sull'impossibilità di una valutazione oggettiva del sistema scolastico. Per denigrare totalmente la valutazione scolastica in atto si sostiene che gli items dei test costruiti dall'INVALSI sarebbero quiz e si afferma che la "Settimana enigmistica", l'opuscolo in vendita nelle edicole in Italia, specializzato nelle parole incrociate, ma non solo, sia molto migliore dei test prodotti dall'INVALSI.

Le critiche ai metodi di valutazione usati dall'INVALSI dunque furoreggiano tra i cosiddetti amici di Facebook ma anche tra una minoranza di insegnanti,  pronti a valutare ad occhio quanto succede nelle scuole ma opposti a qualsiasi tentativo di valutazione scientifica, sistematica, basata su algoritmi. Molti insegnanti straparlano di valutazione e fanno di ogni erba un fascio, senza conoscere come sono preparate le valutazioni dei sistemi scolastici. E' doveroso criticare le modalità di valutazione dei sistemi scolastici perché solo con queste critiche se ne correggono i difetti  ed è corretto esaminarne le conseguenze come pure i metodi usati per effettuare le indagini Per esempio in Italia si è deciso di effettuare indagini censuarie e non solo campionarie. Chi ha deciso? Quando? Con quali argomenti? Cosa si voleva ottenere con le indagini censuarie? L'amministrazione scolastica italiana era attrezzata per realizzarle? Si è poi deciso di mescolare le indagini sul sistema scolastico con le prove individuali , gli esami , i cui risultati vengono inseriti nelle pagelle e contano nel computo delle medie di ogni studente quindi nelle promozioni e negli orientamenti scolastici e professionali. Perché questa mescolanza di generi? Chi l'ha voluta? Si può fare altro? Infine si è passati di colpo a indagini elettroniche anche se la rete informatica diffusa sul territorio non lo consentiva. Chi ha deciso? Con quali intenzioni? Come si ponderano i risultati? Con quali risorse si preparano le scuole? Come si passa da una valutazione cartacea a una elettronica?

Il mondo della valutazione dei sistemi scolastici non è tutto roseo ma le accuse rivolte all'INVALSI sembrano davvero eccessive. In primo luogo  è opportuno rilevare che l'INVALSI non è un ente autonomo che decide liberamente per proprio conto le indagini da effettuare e  come effettuarle . L ' INVALSI dipende dal Ministro dell'Istruzione, delle Università e della Ricerca Scientifica. Questa fu un'opzione adottata al momento della creazione dell'INVALSI. Fu una scelta effettuata a Roma , frutto di  un compromesso politico. Altre scelte, altri indirizzi esistono e sono dunque possibili. Ogni scelta ha i suoi pregi e i suoi difetti. Però si deve ammettere che la costituzione di un Istituto Nazionale di valutazione della scuola fu già di per sé un passo avanti soprattutto in una nazione come l'Italia, sprovvista di una forte tradizione psicometrica, di centri di ricerca e di formazione universitari specializzati nella valutazione "tout court" della scuola , ossia degli studenti, degli insegnanti , dei dirigenti scolastici, dell'amministrazione scolastica . Mentre nel mondo si costituiva a partire dagli anni trenta del secolo scorso una comunità scientifica di specialisti della valutazione internazionale comparata dei sistemi scolastici , in Italia non succedeva nulla del genere. L'Italia era di fatto assente in  questo movimento.  Orbene, la novità di politica scolastica alla fine del XX secolo fu appunto il trionfo della valutazione dei sistemi scolastici su larga scala. A livello politico si è capito che i sistemi scolastici andavano valutati, che per migliorare la gestione dei sistemi scolastici si doveva sapere come funzionavano e  cosa imparavano gli studenti nelle scuole pubbliche. Questa operazione non è affatto semplice e solleva un sacco di problemi teorici e organizzativi, ossia pratici. Si è cominciato con quanto si sapeva già fare: ossia con la valutazione degli studenti. Purtroppo non sono uno specialista di psicometria e non sono in grado di discutere i difetti e le virtù dei test scolastici ( che in Italia taluni continuano a chiamare quiz ma che quiz non sono) usati per valutare gli apprendimenti degli studenti e per giudicare la pertinenza e la validità dei sistemi scolastici. So però che questo settore ha  una lunga storia  e che il dibattito su quanto si apprende a scuola e su come lo si misura  continua. Per essere al corrente delle tendenze in atto occorre entrare nella comunità scientifica internazionale che si occupa di queste questioni. Gli specialisti italiani presenti con un ruolo attivo in questa comunità non sono numerosi. Questo significa che in Italia si vive di rendita nel settore della valutazione su vasta scala dei sistemi scolastici ossia che si è al rimorchio di quanto succede e si sperimenta altrove. L'INVALSI costringe a uscire da questa condizione di stallo. Il sistema scolastico italiano (  che va a sua volta va definito, ossia delimitato) deve essere valutato. I dati raccolti finora segnalano che il sistema scolastico italiano  è ammalato. Non solo è sorto in ritardo rispetto a molti altri ma è profondamente inadeguato. Tutti sanno che la politica scolastica in Italia è quasi l'ultima ruota del carro e che nonostante le informazioni si è fatto ben poco per correggere i difetti del sistema che nonostante tutto sopravvive, grazie anche alla bravura di insegnanti, studenti e famiglie che accettano di operare in condizioni talora molto disagevoli.



mercredi 4 juillet 2018

Sapiens

Ho ricevuto in regalo "Sapiens" il libro di Yuval Noah Harari che ho letto in francese. Harari è professore di storia all'università ebraica di Gerusalemme. L'autore mescola  con grande abilità diverse discipline per raccontare il trionfo dell' homo sapiens. Libro molto colto, con nervose citazioni a piè di pagina. La prima parte del libro è affascinante perché descrive come si è passati da un mondo in cui vivevano sei speci differenti di ominidi a una sola specie , la nostra, quella dell'homo sapiens. Ci sono voluti 100 000 anni per giungere allo stato attuale. La lettura fa venire le vertigini perché  riporta indietro di migliaia d'anni ed obbliga a ripensare il mondo, la situazione nella quale vivevano quelli che si chiamavano gli uomini primitivi mentre , almeno nel mio caso almeno, riesco a rappresentarmi più o meno bene il contesto di 2000-3000 anni fa. In ogni modo questa parte del libro è salutare perché rivela che 2000 anni fa è di poco conto, ossia è un periodo vicinissimo a quello attuale. Per la mia generazione gli uomini primitivi costituivano una nebulosa vaga, un magma confuso che invece Harari dipana e questa dimensione  mi ha affascinato. La seconda parte del libro, assai voluminoso perché è di 500 pagine, invece è noiosa, piatta, scialba. Vi si descrive il successo della società creata dall'homo sapiens e i limiti di questa società. Si sfiora il racconto ideologico. E' infatti difficile cogliere gli aspetti che contraddistinguono la società contemporanea senza esprimere un giudizio. Harar tenta di stare in bilico. cita una sola volta Karl Marx che invece è uno dei rari filosofi che ha analizzato la società capitalista e non cita mai nelle svariate pagine dedicate alla felicità,  Freud che invece ha indagato il malessere della società contemporanea,  Ho acquistato il libro che segue:  "Homo Deus " che ha come sottotitolo almeno nell'edizione francese "Una breve storia del futuro" ( non so quale sia il sottotitolo ufficiale nell'edizione in italiano) ed ho subito capito il titolo: si tratta di un altro volumone  sul destino della società voluta, gestita,  dall'homo sapiens il quale si comporta come  un dio, plasma il mondo, la terra, nella quale vive come vuole, nel bene e nel male, con le forze, l'abilità e l'intelligenza che ha. Mi rendo conto che scopro assai tardi questo autore e questi volumi che sono di divulgazione e che inducono nondimeno a riflettere.

mercredi 28 février 2018

Patria

Il concetto di patria  mi ha cullato dall'infanzia , mi frulla nella testa anche ora dopo che l'ho mandato al diavolo. La patria c'è e non c'è. Mi sono liberato di una certa interpretazione del concetto di patria, quello che si tentava di inculcarmi nell'immediato dopoguerra ( gli anni dal 1945 al 1950)  e ne scopro un'altra. Siamo legati a qualcosa, a un territorio, almeno mi sento legato. Questa è una domanda che mi pongo. Che cosa mi lega ?






 Ho finito di leggere un romanzo di 632 pagine di Fernando Aramburo intitolato Patria, tradotto in italiano dal castigliano e pubblicato da Guanda  nel settembre 2017. Il romanzo è del 2016.  La patria in questione è il paese basco, e il romanzo racconta, descrive quanto succede in una zona, in un paese molto piccolo, proprio come il mio, l'area che va da Bilbao a San Sebastian, un'area montagnosa, aspra. Tutti si conoscono nei paesotti e la patria comune in moltissimi pagine è il basco, la lingua parlata in quella regione. Il libro è zeppo di termini baschi e alla fine si trova un lessico che permette di capire il testo, ma si intuisce ugualmente  il significato  dei termini anche senza lessico .Quindi la lingua è il comune denominatore che affilia a una patria. I terroristi baschi, quelli delll'ETA, parlavano basco tra loro e rifiutavano coloro che parlavano il castigliano. Poco per volta, leggendo il libro, ho capito il titolo e mi sono reso conto che si parlava di patria, che in ballo era il legame a qualcosa che determinava i comportamenti, i valori, l'ideologia e che alla fine tutto andava in fumo. Gli schemi ideologici rigidi contavano  meno dei problemi singoli, delle persone che li vivono, li soffrono, li sopportano. Tre figure emblematiche nel racconto conducono la danza e fanno saltare tutti gli schemi ideologici: le due figlie e il fratello di una.

Nerea, gioviale, figlia di Bittori che si ribella a tutto. Anche in amore condivide un'esistenza complicata con un donnaiolo, Enrique, detto Quique, un bell'uomo che vuole restare indipendente e  gran amatore di donne.  Poi Arantxa, figlia di Miren che ha  anche lei una vita sconvolta: due figli, divorziata da Guille e per finire paralizzata e in carrozzella per tutta la vita, condannata a comunicare con un iPad , a causa di un ictus cerebrale. Nerea è amica di Arantxa, Bittori di Miren. Il libro narra l'amicizia e la rottura per ragioni politiche tra le due famiglie, quella di Bittori , spagnola ma basca, moglie di un imprenditore locale basco ma nazionalista spagnolo e quella di Miren una nazionalista basca , la riconciliazione alla fine delle due famiglie. Esistono un terzo e un quarto incomodo. Dapprima il marito di Bittori, detto Txato, è assassinato dall'ETA; poi Joxe Mari, figlio di Miren, fratello di Arantxa, diventa militante dell'ETA e infine Gorka, altro fratello di Arantxa,  che va via da casa, dal paese, che ama i libri, la scrittura, è omosessuale, vive con un uomo più vecchio di lui. Libro magnifico che racconta la storia di una follia, la lotta ferocissima dell'ETA contro lo stato castigliano per ottenere l'indipendenza del paese basco, poi la storia di due famiglie, un tempo amiche per la pelle, separate dal dramma dell'assassinio di Txato e infine la riconciliazione, il perdono strappato in punto di morte da Bittori a Joxe Mari, il terrorista.

Non so se il romanzo sia autobiografico o meno. Ho qualche dubbio in merito. Non conosco l'autore, ignoro la sua storia. Forse è Gorka. Ho ripercorso grazie al libro  l'avventura dell'ETA. Mi sono ricordato che quando ero giovane capo scout avevo amici che sognavano l'ETA. Uno è partito più tardi per il paese basco. Non mi ricordo  se per amore di una ragazza oppure per amore del progetto politico. Ho idee confuse a questo riguardo, ma il compagno ha avuto il coraggio di partire. Io vagheggiavo l'indipendenza del mio paese, un molto improbabile  ritorno nel mondo italiano, l'italianità della regione in cui abitavo che aveva una storia locale di violenza, un poco ridicola, la quale  aveva ben poco a che vedere con quanto succedeva allora nel Paese basco oppure nell'Irlanda del Nord.  Però anche da noi tutti sanno tutto di tutti e  si fa in modo di rendere pubblici le questioni private. Ai miei tempi c'erano i quotidiani e si usava la stampa per questa missione. Oggi alcuni quotidiani sono scomparsi. In ogni modo ci si serviva dei quotidiani per fare sapere anche le più insigne stupidate: per esempio i successi scolastici e politici, i voti ottenuti a fine anno oppure la nomina a un posto prestigioso, la partenza per un viaggio verso una meta esotica. Gli annunci funebri erano una lettura quotidiana, come pure la cronaca giudiziaria, quella sportiva, le nascite, i matrimoni dei figli degli amici, gli incidenti stradali e via dicendo. Ritrovo alcune di queste rubriche ben nutrite nella "Provence" , il maggiore quotidiano del Sud-Est francese, ma suppongo che la funzione informativa qui sia diversa. Sono scappato da quel mondo e non so come si regolano oggigiorno le vicende personali delle varie tribù che convivono in quel lembo di terra che è la parte meridionale elvetica delle Alpi incuneata nella Lombardia. Lì si parla una specie di italiano e una volta si usavano tantissimi dialetti. Si capisce benissimo l'italiano ufficiale della RAI o il toscano, ma il dialetto prealpino ( che non è la koinè pre-alpina se ho capito giusto), diverso da vallata a vallata,da città a città,  è davvero la lingua madre. Fino ai sei anni credo di avere parlato solo in dialetto. Ho continuato a discutere in dialetto con i genitori fin quando sono stati in vita. L'italiano l'ho appreso a scuola. Prima lingua straniera! Capisco l'importanza che gli indipendenti baschi attribuiscono al basco . Ho ricevuto una volta a  Ginevra i responsabili del centro di ricerca scientifica sulla scuola di San Sebastian che incontravano grosse difficoltà tecniche nel tradurre in basco i test dell'indagine internazionale  PISA promossa dall'OCSE sulla valutazione di alcune conoscenze dei quindicenni. Il questionario di matematica era molto più lungo di quello catalano o castigliano. Volevano accertarsi di avere ragione nell'esigere che gli strumenti d'indagine fossero in basco. Più tardi ho scoperto che nelle scuole primarie senegalesi si insegnava in francese ma tutti, alunni e insegnanti parlavano invece il wolof, molti insegnanti conoscevano a malapena il francese. La patria è anche la lingua che si parla.

Il romanzo di Aramburu mi ha per prima cosa interpellato sulla mia vita quotidiana. Ho studiato, ho insegnato qualcosa nel mondo in cui sono nato. Mi hanno fatto capire  che la patria era qualcosa di più grande ma sono scappato via. Non proprio come Gorka, l'omosessuale, scappato dal villaggio a Bilbao, che è pur sempre nel paese basco,  e che ha finito per lavorare in una radio. Non è stato il mio caso. Ho abbandonato l'insegnamento. Sono partito, sono andato via anch'io. Anche nella mia scelta c'era una dimensione familiare, come nel romanzo.

Non sono mai stato patriottico. Provo tuttora molto fastidio di fronte alle manifestazioni patriottarde. I cosmopoliti, i senza patria ci sono e hanno sempre pagato un caro prezzo. Affascinano. Penso al libro di Ursula Hirschmann sorella dell'economista Albert e moglie di Altiero Spinelli, intitolato " Noi senza patria", pubblicato dal Mulino nel 1993. Poi mi viene in mente un'affermazione della filosofa USA Martha Nussbaum che in un'intervista ha dichiarato che la sua patria si trova laddove sta il suo gatto. Mi piace. Le radici ci sono e si tratta di equilibrare i legami con la terra di origine e la libertà di  andarsene altrove , di essere spiriti liberi, indipendenti, di pensare come si vuole, di scegliere gli amici. I gatti si muovono poco anche se sono liberi di girare dove vogliono in casa, si affezionano a un angolino, laddove c'è qualcuno che li nutre, che li accarezza, e sono riconoscenti.  tornano sempre dove stanno bene. Non è sempre il caso con gli umani.



mercredi 21 février 2018

Il mio 68

Quest'anno ricorre il cinquantesimo degli avvenimenti successi nel lontano 1968. Taluni aborrono quanto accaduto allora e vorrebbero tornare indietro , al mondo come era nel corso degli Anni dell'immediato dopoguerra. Altri invece , più lucidi, ammettono che il 68 è stata una pietra miliare, un'occasione d'oro per cambiare il mondo. Il mondo dopo d'allora è infatti cambiato, forse non proprio come lo si auspicava. Credo però che oggigiorno si stia anche molto meglio di cinquant'anni fa, checché se ne dica,  nonostante gli errori commessi per cercare vie nuove rispetto a quelle percorse fino ad allora ,  praticare modi diversi di esistere, di vivere, correggere le deformazioni del "vecchio" mondo ( ce n'erano). Non voglio qui alludere a quanto successo nel campo scolastico ma penso soprattutto al quadro generale. Le istituzioni ( il sistema scolastico, l'Esercito, le Chiese, i partiti, il sistema finanziario, ecc.) erano in crisi. Non è  che tutto quanto successo dopo il 68 mi piaccia ma questa non è la questione. Escono molti libri in questi mesi su quel periodo che ha scombussolato un po' tutto il mondo dell'immediato dopoguerra. Non voglio raccontare la mia infanzia tra il 1945 e il 1950, ma non è stata davvero rosea. Alcuni cambiamenti sono illuminanti, altri meno. Non nascondo che mi piacciono soprattutto i testi di un leader di allora, Daniel Cohn-Bendit. Non solo i  suoi testi, le sue prese di posizione, il suo modo di pensare il mondo odierno nel quale si trova, ma anche il tipo di vita che ha condotto.

Mi è spesso capitato di ripensare a quell'epoca. Avevo allora meno di trent'anni e ammetto che non capivo bene quanto stavamo vivendo.  Sapevo però, tra il 1960 e il 1970,  che non si potevano più mantenere le regole, i comportamenti, le credenze in voga fino ad allora perché per l'appunto le mentalità  erano cambiate. Ho vissuto fino in fondo quegli anni ed ho anche sofferto. Non volevo più essere come lo ero, come mi avevano programmato e cresciuto. Mi rendevo conto che sarei stato come un pesce fuor d'acqua.

In fondo la questione scottante allora come oggigiorno è quella dell'autorità e dell'autoritarismo. Cosa significa essere autorevoli, esercitare l'autorità, occupare una posizione di prestigio. Chi definisce i compiti, le funzioni? Mi ricordo di un libro che mi aveva marcato: Verso una società senza padri ( "Auf dem Weg zur vaterlosen Gesellschaft"di Alexander Mitscherlich, psichiatra, psicanalista, sociologo tedesco. Avevo l'impressione di avere a che fare con una montagna di autorità ipocrite, false che si dovevano smontare, combattere. Tutto era buono per scardinare l'autoritarismo imperante. SI pensava allora che si sarebbe potuto fare a meno dell'autorità. Poi sono venute invece altre autorità, non tutte proprio illibate. Adesso mi rendo conto che l'autorità ci vuole per governare una società, che le istituzioni, da sempre,  necessitano di autorità. Ho anche pagato lo scotto della mia ingenuità.

Mezzo secolo è passato da allora e i ricordi si sfumano. Per esempio non ricordo molti particolari di quanto successo all'Istituto Magistrale di Locarno dove insegnavo allora perché non sono né un cronista né uno storico e perché sono assai disordinato. In questi giorni mi hanno interpellato per sapere se accettavo o meno di andare alla commemorazione di quanto  avvenuto all'Istituto Magistrale di Locarno tra metà marzo del 1968 e forse luglio dello stesso anno. Famosa fu allora l'occupazione dell'aula 20,  il 9 marzo dello stesso anno. Sono tuttora orgoglioso di quella data. Fu ben prima del celebre maggio 68 parigino.Dopo quell'episodio capitarono molte cose all'Istituto Magistrale di Locarno e per finire un anno dopo, nell'estate del 1969,  ho rassegnato le dimissioni da insegnante e me ne sono andato via da quella scuola, dal mondo nel quale ero cresciuto. Avevo capito che non potevo più starci. Ho iniziato un'altra vita.  Localmente i vari episodi  che ricostruisco oggigiorno assai male, sono stati molto pubblicizzati e sono stati vissuti anche in modo drammatico. Taluni eventi hanno avuto strascici dolorosi con risvolti drammatici. Ora molti di quegli episodi mi sembrano irrilevanti anche se hanno forgiato per decenni l'esistenza di tutti coloro che li hanno vissuti. Non saprei per esempio dire quali hanno inciso sulla mia vita. Ero predestinato a una carriera che ho rifiutato e sono scappato via per evitarla e per non soccombere in tutti i sensi. Ho fatto bene e mai avrei immaginato che la società locale, una società prealpina, situata nel cuore della Alpi,  evolvesse come è successo. I punti di riferimento sono cambiati. Ne è risultato un quadro nuovo, cinquant'anni dopo. Sono ormai via da quel mondo che non sono in grado né di giudicare né di capire.

 Ho vissuto intensamente quegli anni. Sapevo che andavo contro l'ordine costituito, che era come si diceva allora , un bel disordine; volevo che la formazione degli insegnanti mutasse e divenisse più seria, più funzionale. Lo volevano anche gli studenti dell'Istituto Magistrale. Le autorità di allora nel cantonetto, noi stessi del resto, ossia coloro che lottavano per migliorare la situazione, non eravamo attrezzati per innovare, cambiare, discutere, verificare. Ho però incontrato in quegli anni persone brillanti, qualificatissime, molto in gamba, che sono state un faro per me, che mi hanno aiutato nella mia grande confusione mentale a capire quanto succedeva e quanto vivevano perché loro avevano capito e perché avevano sofferto molto prima e molto di più di me.

Sul piano personale ricordo un carissimo amico, ora scomparso, di qualche anno più anziano di me,  che dopo una vacanza di fine anno  in Engadina, a inizio gennaio del 68 venne a trovarmi per dirmi che con l'amica, una  morosa,  era andata malissimo, che non aveva passato giornate felici perché lui si era scoperto omosessuale. Mi ha confessato allora la sua omosessualità. Nella cultura nella quale ero stato educato, l'omosessualità era un peccato mortale ma confusamente  capivo che invece era qualcosa d'altro. Quell'amico mi ha aiutato molto a comprendere quanto era in ballo allora. Dopo di allora ho modificato interamente il mio sguardo, il mio giudizio, sull'omosessualità. Così è successo per tantissimi altri comportamenti sociali.

Per esempio in politica. Mi vergogno dei  miei tentennamenti riguardo la guerra in Vietnam . Non capivo perché si organizzassero  le sfilate di protesta, perché si dovessero fare anche nel cantonetto. Molti amici ci andavano ed io ero incapace di muovermi, di scendere , come si dice, in piazza. Ero paralizzato e mobilitavo tutti gli argomenti critici per spiegare riluttanza e passività. Mi sono occorsi parecchi  anni per capire quanto importante fosse quella protesta contro uno stato bugiardo. Adesso si sa  che il potere corrompe, che è difficile venirne fuori con le mani pulite, che la politica non è sempre un servizio disinteressato dello stato ma che può esserlo anche quando si devono accettare concessioni perché si negoziano le scelte, che etica e politica spesso si scontrano ma che ci vuole autorità e leadership condivisa per governare. Capisco anche che le manifestazioni di protesta in strada sono necessarie. Sono testimonianze.

Infine la sessualità:  fu un vero scontro di idee, di pregiudizi, di comportamenti. Il 68 ha dato la stura a tutta una serie di proteste maturate nel decennio successivo: la lotta contro l'aborto, la lotta per il divorzio, il diritto al controllo delle nascite, la diffusione degli anticoncezionali, il femminismo. I costumi cambiavano.  Si imponeva allora un nuovo tipo di famiglia, le donne si ribellavano. Madri sì, ma anche amanti. Persone libere, non più schiave di ruoli prefabbricati, imposti dalle autorità, statali o religiose. In ogni modo il 68 non è solo il 68. Sono anche gli anni precedenti e quelli successivi. E'  un'epoca  nella quale sono maturate molte rivolte. Il 68 degli studenti non fu che un punto di cristallizzazione. Molti concetti, molte idee, maturarono prima del 1968. Erano nell'aria.

Non tornerei proprio più indietro. Impossibile. Purtroppo tuttora moltissimi non hanno colto quanto rilevanti fossero quei messaggi.  In quegli anni ho aperto gli occhi, ho condiviso trasformazioni sociali enormi che hanno cambiato la società. In bene o in male? Probabilmente nei due sensi,  poco importa. Intanto ripenso a quanto fatto e già questo percorso, questa rivisitazione, questo feed-back, è di per sé un retaggio di quegli anni. Senza quelle agitazioni, senza ile modalità di come le ho vissute,  non sarei qui a riviverle.

Mi spaventa la richiesta di leggi , di autorità, di norme invocate da vari gruppi sociali o politici soprattutto dai giovani. Sono ormai fuori gioco. E' evidente che le giovani generazioni oggigiorno sono disorientate, hanno un'esistenza non facile,  ma ascolto  attonito  richieste formulate ovunque , che spesso combaciano nonostante le distanze geografiche, di soluzioni chiare, di regole da rispettare, di norme da imporre. La religione  è vissuta come un toccasana. Qualsiasi religione. Offre riti, ascolto, perdono, commiserazione e regole connesse al destino alle quali ci si aggrappa come a un salvagente. Nondimeno si rivendica giustizia, tolleranza, comprensione,  condizioni di vita decorose. Il lavoro è visto come un mezzo per sopravvivere. Ma quale lavoro? Allora si bara. Piuttosto che accettare un lavoro qualsiasi si rivendicano provvedimenti sociali protettivi. Le società contemporanee non sono però in grado di offrire quanto vorrebbero le giovani generazioni. Tocca alla classe politica capirne le rivendicazioni, agire per soddisfarle.Un altro 68 è necessario?

dimanche 14 janvier 2018

NO a No Billag

In Svizzera imperversa la campagna elettorale per la votazione federale del 4 marzo prossimo sull'iniziativa popolare promossa dalla destra populista  che propone di vietare qualsiasi finanziamento pubblico ( sia di programmi che di emittenti) da parte della Confederazione elvetica, proibizione da inserire nella costituzione federale.

Attualmente le emissioni radiotelevisive elvetiche sono decentralizzate, indipendenti  e sono plurilingue. Per esempio la radiotelevisione in italiano è trasmessa in tutto il mondo alpino elvetico. Questo significa che si possono vedere i programmi in italiano ovunque nella Confederazione, a Basilea come a Ginevra; stessa cosa per il francese e per il tedesco ( spesso nel dialetto tedesco alpino che varia da Basilea a Zurigo o a Berna). Ci sono anche emissioni in romancio. Purtroppo, ma questa osservazione in questo caso è di secondaria rilevanza, le emittenti elvetiche hanno spesso ignorato la presenza nel mondo alpino elvetico di una forte minoranza italofona non elvetica. Nella Confederazione  elvetica prevale il principio linguistico territoriale. Italofoni riconosciuti di pieno diritto per le autorità elvetiche  sono solo i nativi svizzeri, ma questa è un'altra storia. La televisione in italiano è fatta per gli Svizzeri italofoni, e non per altre nazionalità che usano l'italiano quotidianamente.

Riveniamo a NoBillag. Billag è la ditta incaricaricata di incassare il canone radio televisivo con il quale si pagano le emittenti nazionali ( francofoni, svizzero-tedesca e italofona). Nel Ticino, ossia nella parte meridionale del mondo alpino elvetico, funziona una  radio con tre canali e una televisione con due canali per una popolazione locale, ossia ticinese,  di pressapoco 300 000 persone. Senza il canone federale sarebbe impossibile mantenere un apparato del genere per una popolazione talmente esigua. Non entro qui nel merito della qualità dei programmi. Di questi tempi se ne discute assai. Alcuni furono e sono davvero eccellenti e altri discutibili. Il che è normale. Si va spesso a periodi. In taluni momenti la radio e la tv ticinese o svizzero-italiana per essere più precisi sono  state davvero notevoli e hanno prodotto emissioni di alto livello culturale e politico. In altri periodi forse meno. Anche questo non è il puntosi cui vorrei discutere in questo post.

Dico subito però che voterò No a NoBillag, la denominazione dell'iniziativa perversa che propone di eliminare il canone radio-televisivo. Una parte dell'elettorato invece è allettata dall'eliminazione del canone percepita come un vantaggio e come una giusta punizione verso la radio-televisione.

Si spenderà di meno dicono i proponenti dell'iniziativa. Questo argomento di per sé è imparabile per il pubblico, ed è molto demagogico. Occorre infatti dimostrare che l'eliminazione del canone non sarà un vantaggio ; che non è affatto vero che si spenderà meno, anzi che si dovrà spendere molto di più per avere accesso a emissioni che piacciono, che la qualità delle emissioni ne soffrirà. purtroppo ci si rassegna e si accetta il degrado come se fosse una fatalità. I promotori dell'iniziativa non spiegano quello che succederà quando il canone sarà abrogato, quando il servizio pubblico radiotelevisivo smetterà di funzionare perché non sarà più finanziato dall'ente pubblico. Occorre anche aggiungere  che questo servizio è stato fin qui imparziale, neutrale anche se i promotori dell'abrogazione del canone, ossia coloro che invitano ad accettare con un voto positivo le proposte dell'iniziativa, cioè a dire sì a NoBillag ( si vede quanto sia pericolosa già nel lessico la tematica dell'iniziativa) sostengono che non è affatto il caso. In realtà  il servizio radio-televisivo è andato spesso molto controcorrente, non ha promosso le spinte demagogiche, populiste, in parte xenofobe, che si ritrovano in tutto l'arco alpino protese a proteggere le tradizioni, il piccolo mondo antico, che non era proprio allettante come lo si pretende, la bontà del territorio. Quindi per i promotori dell'iniziativa la radio-televisione di stato va punita; via il canone, basta soldi raccolti con una tassa imposta a tutti.

Qui mi limiterò a un aneddoto, a un ricordo personale. Mio padre fu per molti anni membro della CORSI, la Cooperativa regionale per la Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana, un ente che doveva , se non erro, garantire l' indipendenza e la neutralità   della radio e della  televisione della Svizzera italiana. In quanto tale fu anche  delegato della CORSI nel Comitato Nazionale elvetico della Radio Televisione (non so come si chiama ora questo organo) che si riuniva ogni tanto a Berna, nella capitale federale. Lui andava quindi da Lugano a Berna e non so nemmeno se ci andava da solo o se c'erano altri delegati ticinesi. Non sapeva il tedesco e non so come si svolgevano le riunioni. In ogni modo mi ricordo che si sentiva assai penalizzato. Non era però soltanto una questione di lingua. C'era dell'altro. Mentre alle riunioni della CORSI a Lugano sapeva cosa ci andava a fare non era del tutto in chiaro sulla sua funzione a Berna. Qualcosa lo percepiva: sapeva che doveva difendere la ripartizione della torta tra gli apparati radiotelevisivi delle tre regioni linguistiche del mondo elvetico, ma per effettuare questa missione con convincimento occorreva anche credere nella funzione della RSI ossia della radio-televisione della Svizzera italiana. Orbene ho i miei dubbi su questa consapevolezza. Con me non ne ha mai discusso, anche se avevo l'età per farlo.

La sua attività nella CORSI si situa negli ultimi anni della sua carriera politica tra gli anni 60  e 70 del XX secolo, ossia dopo i miei 20 anni. Mi ricordo che in casa contavano molto le diarie delle sedute. Il posto nella CORSI fu un contentino politico che gli fu dato dal partito nel quale militava. Il padre rappresentava nella CORSI i cattolici del partito conservatore, così si chiamava allora il PPD (acronimo per partito popolare democratico), una specie di democrazia cristiana locale. In linea di massima tutti i conservatori avrebbero dovuto essere dei cattolici in politica ma c'erano cattolici e cattolici. Il padre era vicino in parte, in certi momenti,  alla curia vescovile perché era ossequioso di qualsiasi autorità. Lo era in quegli anni; Non saprei dire se era un cattolico del centro politico oppure un cattolico della destra politica. A quei tempi, inizio degli anni 60, nel Ticino non c'era ancora né la Lega dei Ticinesi fondata più tardi da Giuliano Bignasca, né CL (acronimo per Comunione e Liberazione). Il paesaggio politico era animato da tre partiti : quello liberale-radicale, quello socialista e e quello appunto conservatore. I tre partiti erano già in crisi come si scoprì in modo lampante nel corso degli anni 70. Compito di mio padre nella CORSI era dunque quello di fare valere e di difendere il punto di vista e le opinioni del mondo cattolico ticinese in seno alla radiotelevisione della Svizzera italiana dove c'era un  dominio schiacciante  liberal-radicale ( la maggioranza allora) e socialista. Non so se il padre fosse consapevole del ruolo della radiotelevisione della Svizzera italiana. Con me non ne ha mai parlato. Di sicuro voleva evitare che quell'ente diventasse un covo liberale-radicale o peggio ancora, per lui,  socialista o cripto-comunista. Non so se ne ha parlato  con i fratelli e le sorelle. Sapevo che andava alle riunioni, che le diarie erano benvolute dalla mamma, che si recava a Berna malvolentieri, almeno nei primi anni, ma non ho mai parlato con lui  del fondo del problema. In casa, la faccenda della CORSI aveva poca rilevanza ed era soprattutto percepita come un ripiego, una questione di posti  di lavoro da distribuire tra i tre partiti maggioritari, una chiave di ripartizione dei posti da difendere. Il suo compito era proprio quello di garantire che una determinata proporzione di posti fosse assegnata a persone con una sensibilità direi democristiana.

Mi chiedo cosa voterebbe ora. La sua scelta sarebbe stata dettata dalla curia e non so quale sia il parere odierno della curia ticinese sulla CORSI. A prima vista avrebbe potuto schierarsi per il no a NOBillag ma avrebbe anche potuto votare per il si a NOBillag, tirandosi la zappa sui piedi. La sua posizione sarebbe stata del tutto inconfortevole, come del resto accade a tutti coloro con posizioni ambigue. In fondo lui era agnostico in materia e si sarebbe lasciato influenzare da altri. Se la curia o qualcuno delle sfere ecclesiastiche non lo avesse pilotato a contare per lui sarebbe stato il parere o il calcolo della moglie, ossia di mia madre. A lei importavano i soldi ma lei era anche una persona di estrema destra che non ascoltava mai la radio ( come del resto il padre).