mercredi 20 octobre 2021

L' avventura dell' Enciclopedia,1775-1800.

Ho appena  finito di leggere  "L'aventure de l' Encyclopédie. 1775-1800"di robert Darnton, un librone di 635 pagine, edizione tascabile, in francese, pubblicato da Seuil nel 2013 e nella collana di storia di Seuil nel 1982. Un gran libro secondo Roger Chartier, storico francese e membro del "Collège de France", specialista della lettura e dell'edizione. A scuola, almeno per quanto mi ricordo, avevo appreso che l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert aveva preparato il terreno della rivoluzione francese e che l' Enciclopedia era l'opera centrale di diffusione della cultura dell'illuminismo nella borghesia. L'Americano Darnton  con un lavoro d'archivio enorme iniziato nel 1965 e terminato nel 1979 dimostra che non è così o che è così solo in parte. Questa idea è ripresa da Le Roy Ladurie , altro storico francese, nella prefazione dell'edizione tascabile e da Chartier nella quarta di copertina  dell'edizione tascabile. Darnton segue l'operato di Panckoucke, editore a Parigi,  alla testa di un impero editoriale a Parigi,  che  ha relazioni che contano con la corte e con le figure rilevanti del mondo scientifico  parigino e mondiale,  e  poi analizza soprattutto, ma non solo, l'archivio della società tipografica di Neuchâtel ( S.T.N.). 

La sua è un'indagine meticolosa che vale la pena seguire. E' da anni che volevo leggere questo libro. Vi si apprende tra l'altro che l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert ebbe 25 000 copie vendute , che  gli acquirenti erano borghesi che sapevano leggere, che non erano necessariamente membri del terzo stato e che non tutti gli autori dell'edizione finale dell'Enciclopedia militavano per la Rivoluzione, che taluni erano giacobini e altri girondini, che gli straccivendoli contavano moltissimo perché erano intermediari indispensabili nella fabbricazione della carta, che la vita scientifica di allora era organizzata attorno alle Accademie scientifiche, che nella seconda metà del Settecento esisteva un diffuso interesse per le enciclopedie, che si sa ben poco sull'influsso dell'Enciclopedia sulla mentalità  dei rivoluzionari. Panckoucke, che a Parigi rappresentava uno dei poli dell'edizione dell' Enciclopedia, condivideva la cultura del Settecento, ma era anche favorevole all' eliminazione dei privilegi che erano il cardine della vita culturale di allora, pur continuando a servirsi  ampiamente del sistema dei privilegi. Era un personaggio che sapeva navigare tra molte tendenze rivoluzionarie. La sua fu un'impresa disperata perché concepita sotto l'Ancien Régime , nel contesto scientifico di quel mondo, ma Panckoucke si intestardì a pubblicarla in un'epoca del tutto diversa, in un contesto sociale in pieno cambiamento, con tipografie e manodopera che funzionavano in un modo del tutto diverso da quello che aveva conosciuto quando si lqnciqvq nel mercato editoriale. Cercò in vari modi di salvarsi e di salvare la sua impresa che consisteva a fornire al pubblico dei lettori una visione globale del sapere alla metà del Settecento ma non aveva capito, almeno da quanto dice Darnton, il significato del successo delle Enciclopedia allora. In effetti se ne pubblicarono più di una di Enciclopedie nella seconda metà del Settecento quando nacque la scienza contemporanea con Monge, Lamarck, Condorcet ( ossia la fisica, la chimica, la genetica, le scienze sociali, la medicina,  per esempio). L'opera di Diderot aveva invece come obiettivo quello di imporre una nuova filosofia, mentre gli autori dell'Enciclopedia della fine del Settecento e che scrivevano in piena fase rivoluzionaria, avevano come scopo principale quello di professionalizzare la scienza. La stragrande maggioranza degli autori che avevano collaborato con Diderot erano decessi prima della rivoluzione del 1789 e non hanno più collaborato all'edizione dell'ultima versione dell'Enciclopedia, l'"Encyclopédie méthodique" di  Panckoucke ,  pure decesso alla fine del Settecento. L' editore, secondo Darnton, ha capito solo in parte che il mondo era cambiato. Agli inizi fu un rivoluzionario poi prese paura e divenne un sostenitore dell'ordine, cioè di una società più strutturata, con una élite riconosciuta.



 
Ci sono moltissimi lavori sull'Enciclopedia e sulla rivoluzione francese che ha modificato totalmente il mondo dell'Ancien Régime. Il lavoro di Darnton si colloca in questo florilegio. L'elite non cambia ma pensa e opera diversamente, ha altri punti di riferimento. Darnton descrive bene queste trasformazioni nel settore dell'editoria Illustra i  colpi bassi del neo-capitalismo nascente con esempi provenienti dal mondo editoriale. Darnton si sofferma sul pubblico dell'Enciclopedia. Non è quello rivoluzionario. Due esempi ripresi anche nella prefazione di Le Roy Ladurie: Besançon e Lilla. A Besançon si vendono molte copie , costosissime, dell' enciclopedie e a Lilla pochissime. Orbene, Besançon è una città di funzionari, di nobili, di militari mentre Lilla è una metropoli del commercio  e dell'industria, con un proletariato numeroso e povero, un centro già capitalista. Tra gli acquirenti dei volumi ci sono molti preti e molti ufficiali. Pochi borghesi che ruotano attorno allo Stato, che con la sua organizzazione è la vera matrice della rivoluzione e della modernità secondo Le Roy Ladurie. La rivoluzione per Le Roy Ladurie andrà troppo lontano per loro. Molti saranno ghigliottinati. Il capitalismo in senso marxista non è responsabile della modernità. I commercianti in Francia verso il 1780 non si interessavano dell'Enciclopedia, delle idee, della politica. Questo sfera accaparra invece gli intellettuali. Ce ne sono molti nella Francia di allora ma si trovano soprattutto nei centri non commerciali  come Montpellier e Nancy, dove fioriscono le Accademie scientifiche e i Parlamenti regionali,.Le città unicamente mercantili non hanno queste istituzioni, non attirano intellettuali. L'illuminismo non è l'espressione più colta della borghesia. La rivendicazione dell'uguaglianza nasce nella società privilegiata o semi-privilegiata dell'Ancine Régime. Questo è per me il messaggio nuovo del libro. Le statistiche parlano. Ce ne sono.Occorre andare a cercarle.


jeudi 1 juillet 2021

Scoutismo

 Ho passato molto tempo negli scouts: dapprima come lupetto ( dal 1949, poi come esploratore). Mi ricordo di due achele ( si chiamavano così allora --negli anni 50 -- le ragazze che si occupavano dei piccoli tra i 6 e i 10 anni). Non sono diventato un rover -- ossia uno scout dopo i 16 anni -- perché ho biforcato verso la direzione degli esploratori-- gli scout dai 10 o 11 anni ai 14 o 15.  Fui attivo  nella sezione Tre Pini di Massagno, periferia di Lugano. Dovevo diventare un capo della sezione esploratori cattolici della Tre Pini a Massagno poi del movimento scout cattolico del Ticino,  ma con me la scommessa dei miei fu persa. Non ho ereditato il lascito di mio padre. Eppure era lì da prendere,   ma non ho voluto effettuare le lotte, inevitabili, per mantenere lo scoutismo cattolico nel Ticino. Adesso non c'è più. Gli scout cattolici locali sono stati assimilati in un movimento più ampio che ha assorbito quelli cattolici e quelli non cattolici.  In ogni modo sono stato uno scout dal 1949 al 1960 nella sezione scout creata da mio padre. E' difficile dire quando è finita la mia esperienza scout. Poco per volta, attorno al 1960. Nel 1959 ho ancora frequentato in parte il campeggio estivo della Tre Pini a Chironico, un villaggio in Valle Leventina.  Lì c'era anche mia madre. Mi ricordo ben poco di quel soggiorno per me collegato alla ricerca di un posto di lavoro, il primo, mio. I miei arrangiarono ogni cosa e finii a Melide in riva al lago di Lugano. Mi ricordo solo che non volevo andarci e che lì, a Chironico, ebbi uno scontro, forse il primo,  con i miei. 

Torniamo agli scout. Il periodo più bello che ricordo fu quello durante il quale feci il capo pattuglia della pattuglia Pipistrelli, negli scout di Masssagno. Fu allora  che mi occupai di arredare l'angolo della pattuglia  nella sede della Tre Pini che si trovava in un sottoscala delle scuole comunali di Massagno. La sistemazione dell'angolo della pattuglia  implicava che si facesse una vetrina illuminata da una lampadina elettrica nell'armadio dato alla pattuglia. Il lavoro fu effettuato da Denis Schwank ( credo si chiamasse Denis, ma non ne sono sicuro), che stava di casa in via Cabbione a Massagno.  Denis ( supponiamo che il nome sia questo) era figlio dell'allora direttore dell'azienda elettrica di Massagno ed era nipote di Don Leber, il direttore , allora, del Giornale del Popolo, il quotidiano della Curia, amico di mio padre e che il padre venerava perché don Leber era un prete molto vicino al vescovo, cioè a chi comanda o ha il potere. Il padre ha sempre amato e ammirato, chi deteneva il potere. Leber era un personaggio ambiguo e potentissimo nel mondo cattolico di allora ma questo aveva poco a che fare con Denis Schwank, suo nipote,  ora decesso, ma parecchio con mio padre che ha  preferito chi comanda e ha una forte personalità. Denis fece il lavoro e allestì la vetrina. Fui molto compiaciuto dell'esito finale, come tutti i membri della pattuglia ma il lavoro  non piacque a mio padre allora presidente della Tre Pini,  che lo trovava pericoloso né a Mario Bottani, il bidello della scuola, che abitava in un appartamento situato nella scuola,  poco distante dalla sede scout. La vetrina invece funzionava benissimo e per me era bella. Era una novità per gli angoli delle quattro pattuglie scout della sezione esploratori della Tre Pini.  Ci riunivamo ogni sabato. Nell'angolo della pattuglia si manipolavano le estrazioni a sorte dei vincitori nelle lotterie che la pattuglia organizzava per raccogliere un poco di soldi. I biglietti costavano  20 centesimi l'uno. Non ricordo i premi. Nell'armadio della pattuglia si metteva la tenda, le pentole e il necessario per le trasmissioni "morse". I  trofei della pattuglia erano invece disposti nella vetrina. 

Tra le attività ridicole degli esploratori  c'era la preparazione alle gare e una di queste era la gara di religione che si svolgeva davanti a un prete. Il capo pattuglia riceveva forse un mese prima della gara un libretto con domande e risposte. Era un catechismo. Si dovevano apprendere a memoria le riposte.  Il prete di turno poneva le domande, interrogava, e ogni membro della pattuglia presente al concorso di religione doveva rispondere. Spettava al capo pattuglia scegliere chi nella  pattuglia avrebbe partecipato alla gara. Pochi sapevano le risposte che erano nel libretto, nonostante gli allenamenti condotti dal capo pattuglia.

Mio fratello Sandro che ha ripreso la Tre Pini dice anche che si continua tuttora a studiare e a trasmettere su 200-300 metri testi  in alfabeto morse. Questa era un'attività tipica del sabato pomeriggio quando ci si preparava alle gare. Ce n'erano di locali e di cantonali. Poche, rarissime, le gare  nazionali. Poi c'erano i nodi. Si imparavano quelli che contano -- il nodo piatto ad esempio -- e si doveva realizzarli con le corde da alpinismo. Infine gli esercizi per marciare in fila, detti "ordinativi". Ogni membro della pattuglia aveva un bastone con una punta di acciaio che si doveva maneggiare con cura. Ho scritto altrove quello che penso dello scoutismo. Ho fatto carriera lì dentro, poi ho capito cammin facendo chi fosse Baden Powell, il generale britannico che ha inventato lo scoutismo. Una bella invenzione per i figli della classe media, per i figli dei cattolici ticinesi della classe media  che avrebbero dovuto fare carriera militare. Sono cresciuto in quel mondo.

Ricordo bene alcuni  i campeggi estivi , in particolare quelli di Frasco in Val Verzasca. A Frasco dove c'è la casa di vacanza della famiglia  Bottani e dove c'era la madre. Ho due ricordi di campeggi della Tre Pini a Frasco: il primo e forse uno degli ultimi. Il primo campeggio, quando ancora ero un lupetto. Si dormiva in una casa nella frazione alta di Frasco (non so più come si chiama quella frazione). Vi abitava la   famiglia Bernardasci, una famiglia con molti figli e figlie. Ho in mente il ballatoio della casa in cui si dormiva. Dopo la valanga del 1971 che distrusse una parte di Frasco, la famiglia Bernardasci  è scomparsa dal mio orizzonte. Adesso passo  al quasi ultimo o forse l'ultimo campeggio di Frasco che ricordo.  Le tende degli esploratori erano collocate al di là del fiume Verzasca, vicino a un cascinale attraversato nel cantinato da un ruscello di acqua fresca  che lo rendeva attraente. Nell'acqua corrente si mettevano i prodotti deperibili e la cassa di  bottiglie di vino che bevevano i capi, ossia mio padre, Mario Bottani che fungeva da cuoco-cantiniere, il prete ( dopotutto eravamo scouts cattolici), il capo della sezione esploratori e poi qualche aiutante di passaggio. Ho dato una mano ad allestire il campo, dovevo avere 15 anni, trasportando sotto un sole cocente il materiale scaricato sulla strada cantonale che andava verso Sonogno, alla frazione di Cantone. Si doveva attraversare la Verzasca, cioè il fiume. Mario Bottani aveva predisposto un passaggio nel fiume per poterlo attraversare facilmente dove l'acqua non scorreva . Ho preso un tremendo colpo di sole, facendo qua e là dalla strada al cascinale dove sarebbe sorto il campo. Sono stato sgridato da mio padre e curato dalla madre , in casa. Il giorno seguente dovetti fermarmi per le febbre. Non si andava molto in montagna allora. Poche gite. Classica, quella all'Alpe Efra. Mio padre davanti: dava la sensazione di conoscere la strada , di essere un viaggiatore, un alpinista e invece non lo era.

Anche a me sono piaciuti i primi campi mobili ossia i campi  volanti, detti così perché si cambiava sede sovente e che erano organizzati dal padre. Si andava sempre a Nord, oltre Gottardo. Era un modo per conoscere la Svizzera che mio padre amava molto. Si iniziò allora, al primo campo volante, con un soggiorno sotto l'acqua a Kandersteg, dove vidi per le prima volta giocare a rugby, nel fango,  e darsi  di santa ragione,  scouts anglosassoni.  Per me era una novità stare sotto l'acqua e provare piacere a vivere in quelle condizioni climatiche. di solito preferivo l'asciutto. Poi non avevo mai visto una partita di rugby. Si  andò  in seguito a Meiringen a visitare  le gole dell' Aar. Non mi ricordo di altri campi mobili. Mi pare siamo stati quella volta a Stans a visitare i luoghi di San Nicolao della Flue.  Mio Padre ci conduceva in luoghi a lui noti.

Ho finito con lo scoutismo verso i vent'anni, quando ho capito cosa fosse.



lundi 14 juin 2021

A scuola

 La scuola fu un rifugio che all'inizio mi riparò ma che poi crollo`. Troppa pressione da parte dei genitori per riuscire bene a scuola. Questa pressione era indiretta, non era a parole. Dovevo riuscire e basta. Non si discuteva nemmeno.  Ho qualche ricordo della scuola elementare ; alcuni del ginnasio (o scuola media, 4 anni a Lugano ) e molti della scuola magistrale(  o media di secondo grado) a Locarno, pochi dell'università a Friborgo-Svizzera. Ne scelgo alcuni.

Ho studiato molto, per ore e ore, ma i miei non mi hanno detto molto sulla scuola, non hanno mai dovuto incoraggiarmi. Non ce n'era bisogno. Ho capito molto tardi cosa fosse il sistema scolastico. Da bambino e da giovane volevo imitare il padre, insegnante, essere come lui. Fino ai vent'anni pensavo che fosse un "crack" della  scuola.  Il padre era per me come un dio in terra. Pensavo che sapesse tutto, che non si sbagliava. Per questa ragione sono finito a Locarno dove c'era la sola scuola magistrale (si chiamava così da quella parti. In Italia sarebbe stato  un istituto magistrale) del Cantone. Vi si formavano i futuri insegnanti di scuola elementare del cantone. In effetti non era già più allora , tra il 1956 e il 1959, un istituto professionale ma era una specie di liceo di secondo ordine. Il solo liceo pubblico del Cantone era a Lugano. A Bellinzona c'era la scuola di commercio e a Locarno l'istituto magistrale che fu frequentato da mio padre tra il 1926 e il 1930 ( stessi luoghi, stesse aule) e da mio nonno paterno tra il 1896 e il 1900. Ho pochissimi elementi di questi loro soggiorni. La mia genealogia culturale fu questa: diventare insegnante: infatti un fratello e due sorelle hanno frequentato la stessa scuola. Suppongo che all'epoca di mio padre studente, negli anni Trenta,  ci fosse una maggiore attenzione in quella scuola, nei corsi, per l'indirizzo professionale, per il mestiere di insegnante. Mio padre ha avuto come professore di filosofia e pedagogia un certo Valentiniche credo abbia studiato a Ginevra. Ho conosciuto sua madre, una anziana signora, che andavo a trovare quando ero alla scuola magistrale di Locarnio, ogni tanto a Solduno, una frazione di Locarno.  La maestra Valentini fu anche un'insegnante di mio padre bambino, nella scuola elementare di  Massagno.  Ho detto poco fa professionalizzante perché tra i libri di mio padre ho trovato quelli di Ferrière e Claparède in francese, due tra i maggiori esponenti della scuola attiva. Suppongo che fossero citati da Valentini,  ma non ne ho le prove. Mio padre era un sostenitore della scuola attiva ossia della pedagogia attivista. ma ne  sapeva ben poco. Infatti non ha mai letto né Claparède né Ferrière.I due libri erano intonsi. 

I buoni docenti del liceo di Lugano erano nominati dal Consiglio Stato (l'esecutivo) . Il liceo di Lugano fu un'istituzione voluta da Carlo Cattaneo, ed  era prestigiosa perché formava i quadri dirigenti del Cantone. Ancora ai tempi della mia adolescenza, sul finire degli anni Quaranta e agli inizi degli anni Cinquanta del XX secolo, aveva pochi studenti ed era soprattutto frequentato dai figli dell'alta borghesia luganese che poi andavano all'università . In quegli anni cominciava il crollo del liceo di Lugano come istituzione prestigiosa ( oggigiorno a Lugano e dintorni ci sono tre licei e due università, che allora non c'erano). L'Istituto magistrale locarnese e la scuola di commercio bellinzonese si ripartivano le briciole degli intellettuali della piccola repubblica lombarda che è il Canton Ticino. 

Non ero molto intelligente.  Alla scuola media ho consumato, il verbo è esatto ed è da prendere alla lettera, il tempo dipingendo  cartine geografiche nel quaderno di geografia. Ho speso ore e ore a fare questo lavoro. Riuscivo assai bene a realizzare i rilievi montagnosi a  colori. Mai , in casa, qualcuno  che mi dicesse che magari era preferibile leggere  gli autori che contano, sia italiani, sia francesi,  piuttosto che dipingere cartine geografiche. Leggere era pericoloso. Nella biblioteca paterna si trovavano per esempio  i volumi  della  storia militare o della guerra di Winston Churcill che qualcuno aveva regalato al padre maestro supposto essere un intellettuale. Quei volumi mi hanno intrigato per anni. e il padre non li aveva letti perché leggeva poco . I volumi, ce n'erano tre o quattro,  erano rilegati, in grigio. Non li ho mai letti neppure io. Suppongo che si tenessero lì perché l'autore era il leader dei conservatori britannici. Non si sapeva bene in casa chi fossero i conservatori britannici. Si  ammiravano solo perché erano conservatori, cioè dei liberali , sostenitori del libero mercato,  ed erano visceralmente anti-communisti. Nessuno tra i genitori mi ha spiegato chi fosse Churcill. Sapevo che non dovevo leggere Bertrand Russell ma ignoravo per quale ragione  Russell fosse un autore poco confacente. Era di sinistra e non di destra. Era citato da personaggi di sinistra. Questo bastava in casa per metterlo all'indice. Intuivo che non si dovesse leggerlo.  Lo capivo anche dal posto dei libri di Churcill nella piccola biblioteca paterna e dall'assenza nella stessa biblioteca dei libri di Russell.   

Poi più avanti negli studi, nel quarto anno di scuola secondaria superiore, mi sono messo a leggere da solo. Ho scoperto Gide, Pascal, Sant'Agostino. I miei, la madre soprattutto che era una bigotta cattolica di origine bergamasca,  sono intervenuti dopo avere consultato  non so chi, mi hanno detto di smettere di leggere Pascal perché  era un'autore pericoloso. Non so perché. Credo per l'idea di estrema destra della società e dell'esistenza che la madre aveva. Non so cosa pensasse il padre.  Non conoscevano nulla di Pascal. In ogni modo a scuola  studiavo molto per essere il primo e per dare soddisfazione a loro, ai genitori, con i voti che pigliavo. A Locarno, dove c'era un internato, ero sempre l'ultimo tra gli studenti  ad andare a letto, molto tardi. Avevo capito come si doveva studiare in matematica per riuscire e facevo solo quello. Ore e ore di esercizi. Non ero molto intelligente ma ero un bravo studente che  applicava il metodo matematico, quello in voga nella "matematica - calcolo" allo  studio di tutte le discipline scolastiche.  Sono riuscito ad essere il primo della classe, a battere tutti i compagni. Ricevevo  buonissimi voti. I prof. mi adoravano. Me ne ricordo pochi: Angelo Boffa, vice-direttore, prof. di "matematica-calcolo", Ezio Dal Vesco, prof. di scienze che poi è andato al poli di Zurigo ad insegnare geologia, Aloisio Janner, prof. di fisica che è andato in Olanda in una università, Piero Bianconi, un prof. ribelle, bravissimo, prof. di francese e di storia dell'arte. Alcuni prof.  erano francamente nulli:  il Pelloni, prof. di pedagogia, il Pedrazzini detto Pirla, prof di francese. Ero uno studente modello. Così , poco per volta, mi sono emancipato. Ma non parlavo. Non sapevo cosa pensasse il padre.  Gli autori che contano --Hegel, Marx,Kirkegaard, Nietzsche,Freud per esempio--li ho scoperti più tardi, per caso, da solo. Quanto aveva un peso era la produzione propria, il pensare criticamente con la propria testa. Ma occorra avere una testa ben fatta prima. Questo dono mi è venuto tardi, dalla cultura. 

All'università, a Friburgo, un'università cattolica, controllata dai domenicani, ho continuato su questa via. A Friborgo vi sono andato dopo tre anni di insegnamento, nel 1962. Avevo soldi perché avevo lavorato e potevo comperarmi tutti i libri che volevo. Lì ho comperato la storia della filosofia occidentale di Bertrand Russell; Ho così letto qualcosa di Piaget, di Freud, di Marx, ossia di autori relativamente contemporanei che la scuola ignorava. Nessuno dei miei genitori mi controllava perché ero via da casa, assai lontano, anche se mi avevano piazzato in un convitto cattolico. I miei speravano che all'università avrei cambiato testa, ma così non successe. Mi accorsi subito che taluni professori erano in gamba e che altri non valevano nulla. Per esempio, ne faccio solo uno, la professoressa di pedagogia, Laure Dupraz non valeva gran che. Stessa cosa per la psicologia,  obbligatoria nel corso in tedesco. Il prof.  era un uomo, colonnello nell'esercito elvetico. Mi son fatto un programma universitario personale, nel senso che seguivo nella facoltà di lettere i prof. che gradivo, andavo ai seminari e ai corsi  che mi piacevano . Non c'erano molti professori un gamba. Allora si poteva. Ero un ribelle. Mi ricordo dei corsi di Roland Ruffieux sulla storia, di quelli di Roland  Girod, che non era a lettere, sulla sociologia, di padre Giovanni  Pozzi, un cappuccino ticinese che gestiva la cattedra di italiano , di  Joseph Bochenski, domenicano,  i cui corsi su Carlo Marx sono stati per me determinanti e del domenicano Marie Philippe poi diventato un idolo integrista in Francia, dei suoi  corsi sulla filosofia antica, su Socrate e i pre-socratici. Queste lezioni mi aprirono gli occhi e dopo averle seguite  non sono più stato come prima.

Fu un lungo cammino, ma sono cambiato, ho iniziato a pensare con la mia testa, a ritenere che lo potevo, anzi che lo dovevo fare. Era un dovere. I prof. che ho avuto non si curavano molto della mia formazione ma confesso era assai difficile seguirmi. Nel Ticino si preoccupavano che diventassi un buon conservatore, nel senso politico del termine, che nel Ticino di allora significava essere un buon democristiano. Era la cultura dei tempi. Non si doveva  cambiare, si doveva assicurare la continuità. Invece ho scoperto che non potevo dire le stesse cose di mio padre nonostante il Flavio Cotti, avvocato diventato consigliere federale, amico di mio padre, oppure,  pure lui avvocato, l'Alberto Lepori, nemico di mio padre,  che aveva studiato a Milano, dirigente dell'Azione Cattolica, che già prendevano certe distanze. Bastava leggere e sapere leggere. Ed io acquistavo libri. Così nel Ticino , quando sono tornato a casa nel 1965 ho iniziato a frequentare persone per bene, capaci, colte, che pensavano con la loro testa  e mi sono affrancato totalmente dai miei genitori che  non erano più una guida, un modello da imitare. L'anno dopo nel 1966 ho rotto i ponti con il mio passato. Nel 1966 mi sono anche sposato senza sapere quel che facevo. Ma questa è un'altra storia. 

mercredi 5 mai 2021

Le femmine

 Questo è un altro tabù della mia educazione. Non se ne è mai parlato in casa né di donne né di gay né di sessualità. Men che meno di amore. Le donne erano esseri pericolosi,  soprattutto quelle che non stavano al proprio posto. Dalle donne si deveva stare alla larga. Questo è quanto ho dedotto dai silenzi familiari sull'argomento. Nessun aiuto dai genitori per capire qualcosa. Eppure i miei pretendevano dettare legge, imporre il loro modello di vita,  dove abitavano.

Sono giunto all'adolescenza senza nessun preavviso, mi sono innamorato di colpo  a 13- 14 anni senza nessuna preparazione, senza sapere cosa fosse innamorarsi.  Il mio pene è diventato lungo e gonfio senza che ne fossi avvertito. Ho a lungo creduto durante l'adolescenza che fosse un'anomalia da fare sparire e così, nei maldestri tentativi per farlo, mi masturbavo e provavo un piacere ben maggiore. Non capivo più nulla.  Non so più se prevaleva in me l'occulta ricerca del piacere solitario, come si diceva allora nelle cerchie che frequentavo, oppure la ricerca della santità e dell'ascetismo, non sapevo  se i miei gesti nei confronti del mio corpo e i miei pensieri a proposito   delle femmine fossero dettati da una tendenza oppure dall'altra.  Per fortuna c'era sempre un confessionale occupato da un prete nelle chiese vicine o sulla strada che dovevo percorrere per andare a scuola, per cui potevo liberarmi rapidamente dai peccati presupposti  che commettevo, dai pensieri che allora ritenevo osceni ma mai e poi mai per anni mi si è stato detto dai confessori che avrei dovuto smettere di denunciare come peccati , ossia come violazione ad una presunta regola, quanto commettevo perché le regole che mi ero date erano errate. Sceglievo ben bene i confessori, molti mi conoscevano. e sono così cresciuto con dentro l'invidia verso il genere femminile che ritenevo non avesse i miei problemi sessuali , con l'ignoranza dell'amore, con il problema di spiegare la femminilità. Non ho saputo fino a molto avanti negli anni, cosa fosse amare. Ho incontrato donnaioli inveterati  che non potevano dirmi cosa fosse amare. Li avversavo. Sapevo solo che amare era complicato e che l'amore poneva problemi, che non volevo avere storie amorose con donne, essere coinvolto in cosidetti pasticci amorosi. Mi sono innamorato un paio di volte e molte femmine si sono innamorate di me, ma non è successo nulla  perché non sapevo cosa significasse per loro e per me  innamorarsi e godere oppure perché pretendevo che non succedesse nulla e che la relazione fosse solo sessuale, ossia solo pornografica. Auspicavo il godimento sul momento. Quindi dovevo sapere cosa fosse amare. Non era necessario spiegarmelo . Lo intuivo, come si dice. Ma ne avevo una concezione del tutto negativa. Quella vissuta in casa e trasmessami dai genitori. Talune donne di cui mi sono innamorato me le ricordo. Ne vedo ancora gli sguardi di innamorate, pronte a darsi e a godere con me.Altre donne sono state oggetto di semplice conquista, di "exploit" sessuali e la relazione non poteva durare perché la donna forse cercava altro, non solo piacere. La mia sessualità fu negata in casa, negata è poco dire. Fu tarpata, soffocata. Ho raramente, forse mai, corteggiato una donna e ho capito molto tardi cosa fosse il suo piacere sessuale, il suo erotismo da soddisfare frequentando un uomo. Ho appena finito di leggere le memorie di Edgar Morin e sono stato colpito dalle molte donne che ha amato, dai moltissimi amori di cui parla liberamente, dalla sua libertà sessuale. Ha gestito l' universo femminile senza remore e si è buttato nel mondo femminile. Delle donne ne parla benissimo , ne ricorda la bellezza; L'esatto contrario di quel che ho vissuto. Forse l'ambiente nel quale sono cresciuto, il mondo "cantonticinese", funzionava così. Non lo credo ma è utile per me pensare in questo modo. Mi è mancato il coraggio e la forza di amare. Ho pensato solo a me stesso, al mio piccolo mondo, ai miei problemi.

Non ho corteggiato nessuna femmina ho detto poco fa. Detestavo essere rifiutato nei balli e non sapevo insistere quando ci ho provato. Eppure il ritmo della musica e delle canzoni mi piaceva. 

Non sapevo nemmeno cosa fosse il bello e il brutto nell'amore. O forse lo sapevo inconsciamente. Probabilmente ho sempre saputo cosa  fosse bello e cosa fosse brutto, ciò  non toglie che quando durante una lezione di scienze del prof. Dal Vesco alla scuola magistrale femminile di Locarno ho realizzato di colpo che i maschi si accoppiavano alla femmine, che per forza doveva andare proprio così,  ho provato disagio e sono stato male. credo che dovevo avere 16 anni. Un po tardi. E' successa la stessa cosa con la castagnata della scuola, organizzata a Giubiasco dai compagni in un caffè-bar. Lì si beveva e si dragava. Vi sono andato il primo anno ma non ci andai più in seguito. L'ambiente, tutto sommato assai banale, non era fatto per me. Non sapevo né ballare né bere. Allora si ballava il liscio. Abbracciare e stringere contro di me una ragazza : forse ne avevo voglia ma la mia educazione lo proibiva. Troppa sessualità per me. Non sapevo proprio come comportarmi, come controllarmi: dapprima le mie reazioni erotiche poi quelle della donna. Ero inibito, bloccato. Avrei passato tutto il tempo seduto ai bordi della sala, senza ballare.Questa era la mia scelta. Non mi pare che i miei mi proibissero di andarci. Non mi ricordo nulla. Il ballo era per me la quintessenza della sessualità e la  dovevo reprimere totalmente. Le brave persone per me erano quelle che annullavano la sessualità. Per forza ce n'erano poche in giro. Non osavo chiedermi nulla sulla sessualità dei miei genitori. Per me non la vivevano. 



mardi 30 mars 2021

L'esercito

Lo confesso. Sono stato un ufficiale nella fanteria di montagna elvetica. Ho passato parecchi mesi  a fare il soldato e adesso non so perché . Questa scelta fu un'imitazione della vita di mio padre che divenne colonnello nell'esercito elvetico . Quando ero un bambino , ossia prima degli anni 50 del secolo scorso, l'esercito era ovunque. In casa in primo luogo. Si parlava, con ammirazione, della mobilitazione di guerra. Allora, si era subito dopo la guerra del 39-45. La mobilitazione  fu per  tutta una generazione un'esperienza unica, vissuta profondamente, di cui si parlava moltissimo. Noi bimbi  si era educati, in un certo senso, alla vita militare. Gli ufficiali erano l'ultima ratio della difesa del paese alpino che era la Svizzera. Erano ammirati in casa mia. Non si diventava ufficiali se non si era un perfetto svizzero. Mio padre era allora un capitano, comandava la compagnia I/95 e mio zio , Giuseppe Beeler di Giubiasco che aveva sposato mia zia, ossia la sorella di mia madre ( erano le uniche due femmine tra numerosi figli maschi) era pure un ufficiale. Ho capito più tardi che la scuola ufficiali , l'ho fatta a Zurigo, era un modo di selezionare la futura élite della nazione.

Mio padre ha fatto carriera nell'esercito. Maestro, ossia insegnante e colonnello, due ruoli autoritari,  in competizione con lo zio Beeler. Tra i due cognati c'era anche una sorda rivalità . Dico questo per spiegare in primo luogo che ero cresciuto alla fine del periodo bellico nel quale l'esercito, ossia l'autorità, l'ubbidienza, il rispetto, la buona organizzazione, l' elvetismo ( ossia  l'ideologia allora imperante in Elvezia) contavano  ancora molto. Quando avevo meno di dieci anni , in casa si seguivano attentamente gli impegni militari del padre. Tutti i sacrifici fatti per facilitargli il servizio militare, erano non solo tollerati ma esaltati. Per esempio una vita spartana, molte assenze dovute ai corsi di ripetizioni annuali che dovevano essere preparati anche con  visite sul posto, quindi giornate di assenza da casa. Il servizio militare era criticato, debolmente, ma era anche rispettato. Non si scherza con il diavolo.Va detto che nell'esercito di milizia elvetico si andava ai corsi di ripetizione ogni anno. I corsi duravano tre settimane. Molti facevano di tutto per evitare questi corsi. Non so se erano operai o meno. Ci riusciva chi aveva le relazioni sociali che contano e chi faceva intervenire coloro che  contavano ( medici, avvocati, politici).

Mi ricordo che in casa giravano i libretti militari dei militi della compagnia che sfogliavo con curiosità, più o meno di nascosto dai genitori. Per anni il padre ha avuto  una macchina da scrivere , in quanto capitano, dell'esercito e che in un cassetto della scrivania teneva buste militari e carta da lettere militari. La sua scuola reclute, la  scuola per aspiranti ufficiali a Zurigo che aveva fatto  negli anni Trenta, le vicende della mobilitazione di guerra,  furono parte rilevante della storia familiare che vivevo e che mi si raccontava. La madre, italiana di origine, lo appoggiava molto e ci inculcava l'amore patrio. Ho saputo, molto tardi, che per sposare il suo amore, il nonno  paterno  le aveva scritto e aveva posto come condizione che diventasse svizzera, ossia, come si diceva allora, che si naturalizzasse. E' quanto fece. Era diventata una buona Svizzera. In tinello e nella sala da pranzo riservata per le grandi occasioni (poche), troneggiava una fotografia del suo matrimonio a Giubiasco. Si sposarono il  2 ottobre del 1939 in piena mobilitazione di guerra. Nella foto ufficiale il padre indossava l'uniforme di ufficiale dell'esercito. C'erano pure nel tinello-salone altri ritratti  fotografici  di lui  in tenuta di ufficiale. Pare che il padre avesse ricevuto un congedo apposito per il matrimonio. Più volte questa storia del matrimonio, un mese dopo la mobilitazione generale, fu raccontata in famiglia e non me la ricordo bene. A dire il vero non l'ho mai ascoltata con attenzione e non ho mai posto domande. Mi infastidiva. Accanto alla fotografia del matrimonio c'erano i ritratti del padre come ufficiale, come primo tenente (non era ancora capitano). Manifestamente mia madre era innamorata di quel bel ragazzo che era anche un buon partito per lei.  Più tardi ho saputo che doveva essere molto patriottica per meritarsi quel marito. Non doveva nascondere ai suoceri e ai cognati, i fratelli di mio padre, le preferenze elvetiche, doveva essere più svizzera di quanto fosse, meritarsi quell'uomo e soprattutto non imbrigliarlo, non mettergli bastoni tra le ruote, permettergli di fare la carriera elvetica che un maestro-colonnello doveva fare. Non so la verità. Non l'ho mai interrogata su questo punto. Con me non ne ha mai parlato. Fatto sta che quelle fotografie sono rimaste esposte al loro posto per anni, fino alla fine dei miei genitori. Ed ora, le stesse,  le ricevo da mio fratello, il secondo ,  che cura l'archivio fotografico famigliare.

Mi ricordo anche che il padre aveva dovuto apprendere ad andare a cavallo perché gli ufficiali con comando di truppa dovevano allora per forza distinguersi. Un giorno era caduto da cavallo ( non so se fosse colpa del cavallo o meno) e si fece assai male ad una coscia. Non seppi mai cosa ha avuto. Fu portato a casa, eravamo già a Massagno,  dove fu curato. Rimase sdraiato nel salotto sul divano per parecchi giorni. Lo curava la moglie, ossia mia madre, ma quando lo massaggiava non si poteva stare nel salotto.

In casa c'erano gli stivali suoi e un aggeggio speciale, il cava-stivali, cioè l'attrezzo per toglierli e forse per metterli, che era di legno. L'esercito elvetico era molto prussiano, molto germanico. Gli ufficiali andavano a cavallo e dal maggiore in su indossavano un cappotto di cuoio, ma quando erano più giovani, all'inizio della carriera,  portavano già stivali di cuoio nero e pantaloni appositi. Mi ricordo che il padre contestava il tocco prussiano dell'esercito e che non aveva un cappotto di cuoio. Se lo fece prestare quando divenne maggiore.

Ho ancora il ricordo di un suo primo tenente, Giuseppe Peduzzi, un imprenditore locale, diventato grande amico suo, che mio padre aiutava a installare una sartoria, e che in uniforme militare era venuto a prenderlo in auto per recarsi a un corso di ripetizione o a una preparazione del corso annuale. Noi non avevamo un' automobile.  Peduzzi sbatté  i tacchi sulla porta di casa e salutò militarmente mio padre, suo capitano che incontrava quasi quotidianamente nella vita civile. Quel rispetto, ancora allora molto diffuso nella società e quel ridicolo sbattere di tacchi, mi hanno sempre accompagnato. Non li ho mai scordati. Non capisco come mai fosse possibile mutare di registro da un giorno all'altro.

Poi è venuto il mio turno. Cresciuto in un ambiente militaresco, proprio negli anni nei quali si credeva molto all'esercito e molti parlavano con rimpianto della mobilitazione di guerra, non potevo non sottrarmi a questa pressione. Ero predestinato a diventare ufficiale. Il figlio di cattolici esemplari doveva fare carriera. Dovevo recitare una parte che dovevo apprendere a memoria. Essere preparato alla funzione . E così successe. Negli anni dell'adolescenza, ci fu dapprima "Gioventù e Sport" che esiste tuttora. I campeggi estivi degli scout e le trasferte erano finanziati da questo organismo che allora era para-militare. Si riceveva materiale militare assai rudimentale ( per esempio i teloni militari che servivano per costruire tende. Ce n'erano a iosa)  che si ordinava prima dell'attività. Logicamente la burocrazia era rilevante. Poi c'erano i  corsi per giovani tiratori . Si andava allo stand di tiro e si apprendeva a sparare, secondo un programma rigoroso.  Mi ricordo che in questa occasione mio padre sfornava il suo moschetto militare, un'arma, in parte lignea, che custodiva gelosamente in solaio. Il moschetto suo non lo si poteva toccare. Incombeva a lui in quanto ufficiale e insegnante, insegnarci a sparare. 

Muniva il moschetto   di un riduttore di potenza per i rari esercizi casalinghi  e si andava a tirare ai bersagli a 300 metri allo stand di tiro di Tesserete, un paesotto sito  a una decina di chilometri da casa che si raggiungeva con il tram.Lo stand era accanto alla stazione. Lì si scoprì che ero un pessimo tiratore e che forse non ero la persona che si tentava di modellare. Avevo compagni nel tiro molto più bravi di me. Non tutte le ciambelle riescono con il buco, così si dice dalle nostra parti.

La scuola reclute a Bellinzona fu un incubo. Quattro mesi per nulla. Sapevo già fare tutto alla perfezione . Ero preparato alla vita militare, ubbidivo, non contestavo l'autorità che aveva sempre ragione.

Alla scuola reclute, cioè alla naia, ho ammirato  il compagno di banco Mario Delucchi, ex ispettore scolastico,  che si è volontariamente ferito  buttandosi armato di tutto punto come un portiere sull'asfalto del piazzale, dopo averlo detto a  tutti  coloro che gli erano vicini che avrebbe compiuto quel gesto, per andare a casa e smettere quella buffonata. Delucchi ci riuscì. Non so cosa ha fatto in seguito. Mi ricordo benissimo il tenente Wölfensberger di Zurigo, detto Lupo, che poi sono andato a trovare a Zurigo . Era un giornalista che si è suicidato qualche anno dopo. Il comandante di scuola era un colonnello , un certo Regli, fratello del professore Regli che insegnava non so più cosa, al liceo cantonale di Lugano (allora nel 1960 nel Ticino c'era un solo liceo statale ). Naturalmente  Regli era amico di mio padre e fui scelto per fare il caporale, altro mese, inutile, e poi di nuovo la scuola reclute, altro quattro mesi, per convalidare i galloni di caporale. Impossibile per me rifiutare quell'esigenza. Avrei dovuto combinarne di tutti i colori prima, e non sapere affatto pulire un coltello o il fucile, per non essere scelto. Avevo scritto un bel NO nel formulario nel quale si sondava l'opinione delle reclute per una carriera militare. Ma nel colloquio con il  comandante della scuola, Regli mi disse che del mio rifiuto non se ne parlava affatto. Fui sgridato dal comandante di scuola. Cosa mi saltava per la mente? Così divenni caporale. Venne nelle prime settimane di formazione il maggior Franchini  un ex-maestro, collega di mio padre. Per forza dovevo essere bravo. Dovevo diventare ascetico come lui, difendere la patria, essere al servizio ella comunità, dedicarmi anima e corpo a quella funzione.   Presi molto seriamente purtroppo la funzione di caporale. Non sapevo fare altro. Avevo un gruppo di alcune persone da addestrare tra le quali un mio ex-compagno di scuola, Alberto Nessi, diventato poi un noto scrittore della Svizzera Italiana. Costringevo i poverini  ad annunciarsi a voce altissima ,  a smontare e rimontare in un  tempo record la culatta dell'arma, un fucile mitragliatore.  Sapevo fare benissimo quanto si aspettavano i comandanti, ossia rendere duttili personalità ribelli. Non me lo si è perdonato.

La scuola ufficiali la feci a Zurigo. Altri tre mesi. Fu una faccenda comica ma anche dura psicologicamente. La classe ( ossia il gruppo italofono) era molto ridotta.  C'era ( alcuni nomi che ricordo) Fernando  Pedrolini di Chiasso ( ex sindaco di Chiasso, diventato colonnello), Lorenzo Wullschleger di Mendrisio, Giorgio Pagani di Lugano, Firmino Vezzoli di Poschiavo, un Giacobbi che allora era a Bellinzona. Il capo classe era il maggiore Torriani di Agno, anche lui amico di mio padre. Dovevo essere il cattolico che diventa ufficiale e che quindi non va perso  per strada. Si deve fare di tutto per aiutarlo e non perderlo. Ero in buone mani.

Non sapevo cosa fosse una scuola ufficiali in Svizzera e soprattutto nella fanteria di montagna. Non mi rendevo conto della fortuna che avevo nel contesto elvetico, di essere scelto per quella formazione. Non ero affatto preparato per quel compito.Si fece di tutto per tenermi lì nonostante le avvisaglie , piuttosto inconsce, della mia debolezza e del mio rifiuto della vita militare che allora dominava il mondo elvetico ferocemente anti-comunista. Le esercitazioni militari, dette manovre, allora erano tutte tese a impedire un' invasione della Svizzera da parte degli eserciti sovietici. Adesso come adesso non aderisco a quel mondo ma allora? Mi piaceva stare alla larga da compiti fastidiosi e indossare l'uniforme di ufficiale, ma cominciai male quella scuola. Arrivai infatti in ritardo all' inizio. Tutti i caporali, futuri tenenti,  erano  schierati sul grande piazzale interno della caserma quando giunsi  lemme lemme alla caserma dalla stazione di Zurigo. Quando  mi accorsi del mio errore ( ero in ritardo) , corsi tra le risate del personale ausiliario a prepararmi, e raggiunsi in fretta e furia i compagni già in rango. Mi si tenne ugualmente. Non sapevo nuotare, esattamente come mio padre, e al tuffo in piscina  dal trampolino di tre metri, vestito di tutto punto, sono dovuti, non ricordo chi, venuti a prendermi nell'acqua della piscina sottostante. Ma ero saltato in acqua ed avevo fatto prova di coraggio;  in palestra,  con Monaco che comandava, al salto del cavallo ( uno strumento di ginnastica artistica) sono caduto male perché i tappeti per la ricezione erano stati mal messi  e mi ferii al tallone.  Per parecchi mesi zoppicai e fui dispensato dagli  sforzi fisici e soprattutto dalle marce. Infine alla corsa di orientamento dei 100 km che chiudeva la formazione, una gara tipica della scuola ufficiali di fanteria che anche mio padre aveva effettuato, svolta da me senza un allenamento appropriato, un medico ha dovuto seguirmi e farmi mangiare sale ogni tanto, perché ne mancavo e non sarei arrivato alla fine. La pattuglia cui facevo parte fatta di candidati ufficiali italofoni era divisa tra il lasciarmi indietro e andare in fretta, rallentare  per permettermi di seguire e aiutarmi. Credo che siamo arrivati ultimi. Non sapevo che eravamo cronometrati. Ignoravo pure che fosse una gara.  Nonostante tutti questi guai mi tennero nella scuola e Torriani fece di tutto per aiutami. Per forza gli ero riconoscente e facevo  bene o benissimo tutti i compiti che potevo svolgere. Non capivo quel che mi succedeva e effettuavo il tutto con dedizione. Si mandò a casa invece Giorgio Pagani, altro scout di Lugano, e non il sottoscritto. La prova finale fu la festa all'albergo Dolder di Zurigo, dove ci andai senza una femmina accompagnatrice benché fosse richiesta esplicitamente. Non ero un uomo e non sapevo ballare. Né lo so ora. Serbo una foto di un ballo su una musica russa, inginocchiato, con il maggiore Zumstein che era l'insegnante di tattica e che mi teneva le mani.  Mi fa una gran pena vedere questa foto. 

Poi tre mesi con le reclute come capo sezione. Sempre alla caserma di  Bellinzona. Non sapevo come prendere le reclute e cosa ci stavo a fare. Ho allora scimmiottato Marco Glättli di Lugano pure lui capo scout  nella sezione Ceresio di Lugano il quale sapeva invece benissimo cosa far fare ai membri della sua sezione e cosa ci si attendeva da lui. Lo vedevo in azione  e ne imitavo le gesta. Ero paralizzato.  Ha finito per prevalere l'unione con le persone. Mi venne in mente Lupo,  il tenente che avevo avuto qualche anno prima come recluta, un  esempio per me. Sapevo manipolare 30 persone. Come ex-scout riuscivo a stare con i soldati, a cantare con loro. E' quanto feci fino ad amalgamare il gruppo  che si è perfino dotato di una bandiera propria. 

Poi vennero i  corsi di ripetizione. Un vero e proprio "patatrac" e non vorrei qui ricordarli  tutti. Poco per volta ho sperimentato la stupidaggine dell'esercito e la mia opposizione è cresciuta con il cambiamento di  idee che stavo maturando. Allora credevo nell'esercito di popolo e anche Franchini diventato nel frattempo colonnello e comandante del reggimento ticinese ci credeva. Se l'esercito era di milizia  si doveva conoscere il territorio sociale che si pretendeva di difendere.  Fu quello che feci. Ero diventato nel frattempo ufficiale informatore ( non sapevo , nessuno me lo  aveva  detto, che gli  ufficiali informatori sono quelli  che torturano i prigionieri per farli  spifferare informazioni sui nemici). Non ricordo  nessun corso sui diritti delle persone e dei prigionieri in tempo di guerra. Magari ce ne sono stati. Avevo scelto di fare l'informatore solo perché ammiravo un collega che ha fatto carriera e che si chiamava Terzaghi e che allora mi spiegò che gli informatori erano più liberi,  effettuavano meno compiti militari. Infatti nell'ultimo corso di ripetizione che ho svolto  a Caslano, ebbi una sezione di informatori,  una combriccola di amici e con loro ne ho  fatto di tutti i colori. Per esempio si andava a piedi a Ponte Tresa , villaggio  al confine italo-svizzero, dove si beveva al bar un buon caffè e si mandava un civile arruolato ai bordi della Tresa, il fiume che separa la Svizzera dall'Italia, oltre confine, dove non potevamo recarci (perché eravamo armati  ed eravamo vestiti da soldati) a  comperare la stampa quotidiana italiana che si leggeva  comodamente seduti ad  un bar. Il mio compito era quello di raccontare fandonie al comandante di battaglione  e di annunciare false attività militaresche della sezione informatori per mascherare iniziative civilissime. 

Ho finito per detestare il servizio militare e per sostenere le iniziative a favore dell'obiezione di coscienza. A quei tempi gli obiettori finivano in prigione dopo un processo davanti a giudici militari che nella vita civile erano anche giudici avvocati e notai. Fu in questo ambito che mi recai a Zurigo per incontrare Lupo anche lui impegnato nello stesso fronte di lotta per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e per l' eliminazione della condanna alla prigionia degli obiettori di coscienza. Mi sembrava che gli  ufficiali della milizia, dell'esercito di popolo, dovessero difendere questa scelta e  schierarsi  pubblicamente per l'obiezione di coscienza.

Cosa ho appreso da questa attività? In primo luogo  ho imitato il padre, vissuto situazioni analoghe alle sue, ho svolto esattamente quanto si raccontava in casa, poi ho appreso a sbefeggiare un'istituzione come l'esercito. Ho anche capito che un'istituzione come l'esercito sapeva difendersi, era inattaccabile. Poi che l'esercito di milizia in Svizzera era uno strumento di  selezione dell'élite sociale che dirigeva il paese e che molte persone colte  erano disposte a tacere e a fare finta di svolgere seriamente i compiti militari, per esempio comandare, organizzare sfilate, partecipare a manovre militari, programmare corsi di ripetizione,  per consolidare il proprio potere, il proprio statuto. La carriera nell'esercito era una copia della carriera nella vita civile. Per taluni, per  pochi,  l'esercito era un ascensore sociale. I  capi dell'esercito si conoscevano tutti e si rispettavano l'un l'altro. Si aiutavano l'un l'altro. L'esercito era uno specchio del paese. Comandava chi comandava nel paese. Non potevo fare nulla per modificare una struttura del genere. Ero molto ingenuo e sprovveduto.Ma anch'io facevo parte di quel mondo.

La guerra d'Algeria

Questa è una faccenda francese, ma appena lo dico  subito ne dubito. Credo non sia affatto così: quel che è successo in Algeria  non è una faccenda locale. Come disse Frantz Fanon, il vate dell'anti-colonialismo, la guerra d'Algeria fu una lotta spietata d'indipendenza contro gli stati coloniali. Non ne sapevo nulla di tutto ciò a quindici anni ma in prima o seconda magistrale cioè nel 1955 e1956 mi intrigava assai quanto succedeva in Algeria e da solo leggevo ogni settimana "Le Figaro", il giornale  che allora non sapevo essere di destra, ma a quei tempi io lo ero, e che riferiva degli scontri  in atto in Algeria, delle battaglie in corso . Forse mi interessavano gli scontri , i mortali trabocchetti, le reazioni dei padroni governanti. Non lo so. Nessuno nella classe di soli maschi nella quale mi trovavo si occupava di quanto accadeva in Algeria dove la guerra d'indipendenza era iniziata nel 1994 ( In effetti l'indipendenza dell'Algeria era iniziata ben prima come     riferisce Edgar Morin nel libro delle sue memorie); I compagni si interessavano sopratutto della bomba atomica e di fisica nucleare , il che non era affatto mal, ma dopotutto questo era un soggetto alla moda, mentre nessuno si azzardava a seguire il conflitto algerino. Ogni mercoledì, ad inizio del pomeriggio (  si era liberi dalle lezioni il mercoledì pomeriggio) si organizzava in classe una specie di "Lascia o Raddoppia", il gioco televisivo della RAI condotto da Mike Buongiorno, seguitissimo da tutti. Le nostre domande vertevano sulla fisica nucleare. Mi ricordo del compagno che aveva vinto, un Pellegrini di Lugano. Dopo il gioco filavo a comperarmi "Le Figaro" alla libreria Romerio sita ,ancora adesso lo è, all'inizio o alla fine, dipende da che parte lo so si sia,  di Piazza Grande a Locarno.

Non ricordo affatto cosa ne pensavo della guerra d'Algeria e cosa mi intrigava così tanto . Ricordo solo che ritagliavo gli articoli del Figaro, che non ho più ritrovato, mentre ho tenuto molte altre cose di quegli anni. Nessun professore, non solo  di francese, mi guidò allora e mi fece leggere testi che mi permettessero di inquadrare quanto avveniva. Non so nemmeno cosa si dicesse in Italia allora dell'Algeria. Però i pochissimi militanti ( nella scuola ce n'erano pochissimi) andavano a Bellinzona, la capitale del Canton Ticino, alle sfilate contro la guerra nel Viet Nam. Non ci sono mai andato. Mi infastidivano, allora,  queste proteste stradali.  

Forse, della mia passione per la guerra in Algeria non ne avevo parlato con nessuno, ma non credo che essa fosse talmente segreta perché ricordo di avere svolto una esposizione sull'argomento in classe durante un'ora di francese , che era la lingua straniera obbligatoria che si studiava allora. Fu proprio durante quell'esposizione che mi sono ribellato alla classe che mi sfotteva a vive voce con il soprannome "Tasc".  Molti , tra i compagni,  sapevano che leggevo Le Figaro in francese e che avevo questa passione ma anche questa peculiarità era inserita tra le mie stranezze e soprattutto nella mia forsennata ambizione di essere un bravo studente, se non il migliore della classe. Ero un "Tasc" e la guerra d'Algeria finiva lì dentro. Non l'ho mai detto ai miei, a casa. Non ne sapevano nulla. Adesso mi viene il dubbio che quell'interesse per l'Algeria fosse un fuga, un modo per scappare di casa, per fare qualcosa di mio.

Sto leggendo il libro di Raphaëlle Branche: "Papa, qu'as-tu fait en Algérie?". Un librone di più di 500 pagine, scritto bene, che solo parzialmente spiega il silenzio francese sulla guerra d'Algeria, perché quella fu una guerra. I Francesi non capirono che una guerriglia si perde sempre . Lo capì De Gaulle.Ne fecero anche le spese gli Statunitensi nel Vietnam. A un certo punto del libro, i soldati di leva mandati in Algeria non capiscono  più nulla, no tortura e uccidono  pur di salvare le propria pelle.Molti si ubriacano. Branche descrive proprio bene questa immersione nella follia.  Anche in Algeria fu guerra , anzi una guerriglia, una lotta partigiana per l'indipendenza. L'esercito francese la perse. I Francesi torturano e uccisero per salvarsi e l'Algeria alla fine divenne indipendente. Questo fu il genio di De Gaulle. Smise la guerra combattuta in gran parte da soldati di leva e disse ai Francesi di cessare. Poteva andare diversamente? Forse. Nel libro, Branche collega le reazioni francesi  a quelle del 39-45 e a quelle del 14-18, ai padri dei soldati in Algeria, ai nonni, e alle loro famiglie. Vi si spiega la difficoltà delle autorità ad ammettere ufficialmente che si faceva in Algeria una guerra vera. I soldati di leva vennero dopo parecchi tentennamenti riconosciuti come combattenti ( quindi con un diritto ad una pensione) , e si spiega anche, in pagine assai belle, il ritardo della psichiatria francese rispetto a quella statunitense nello spiegare i turbamenti causati nei combattenti. Gran parte dei Francesi furono mal curati perché non solo mancavano le attrezzature ma perché le spiegazioni della medicina erano carenti. Branche spara  sui governi francesi  di allora. C'è di che.

Per anni, in Provenza, ho frequentato un vicino, decesso nel dicembre 2019, che aveva effettuato il servizio di leva in Algeria. Non l'ho mai interrogato su quel periodo. Adesso avrei molte domande da porgli ma lui non c'è più. Parlava molto raramente del suo soggiorno in Algeria, anzi non    ne parlava affatto. Mi disse soltanto che una volta all'anno andava a Carpentras ad un incontro di vecchi combattenti. Era un incontro di vecchioni, così parlava. I membri del gruppo  decedevano uno dopo l'altro ormai. Gli ex-combattenti sparivano sistematicamente. Ridacchiava raccontando questo. Ma anche lui non diceva nulla sul suo soggiorno in Algeria. Eppure Branche dice , a ragione, che nessuno  è uscito indenne da quella esperienza.

Poco tempo fa ho accennato in una conversazione alla madre di mia nuora  che aveva sposato un  Francese d'Algeria, un pied noir, che De Gaulle era stato un genio a porre fine alla guerra d'Algeria . Lei reagì vivacemente commentando la mia dichiarazione dicendo che forse si sarebbe dovuto potuto  fare diversamente. Sono rimasto di stucco e non ho reagito. Certamente si sarebbe potuto , ma la lotta per l'indipendenza e le battaglie anti-coloniali mi sembrano oggigiorno  talmente ovvie che non riesco proprio ad immaginare come lo Stato francese avrebbe potuto agire diversamente da come De Gaulle ha fatto, cioè sospendendo la guerra e avviando una trattava con gli Algerini sfociata per finire negli accordi di Evian che davano l'indipendenza all'Algeria.



dimanche 31 janvier 2021

Tasc

 "Tasc"  mi chiamavano i compagni di classe alla scuola magistrale cantonale, a Locarno, accanto alla chiesa di San Francesco. In quella scuola  ci era andato  mio padre e anche mio nonno, entrambi insegnanti, maestri come si diceva nel Ticino. Dovevo avere tra i 15 e i  19 anni. "Tasc" era il mio soprannome. Voleva dire brutto: brutasc in dialetto locale. Si è mantenuta la sillaba finale. Poco per volta quando rispondevo ad una domanda di un  professore in classe oppure quando ero interrogato iniziava il bisbiglio che poi diventava un'ondata sempre più forteche veniva dalla classe. Tutti o molti dicevano "tasc". Ero un secchione, lo confesso. Riuscivo benissimo a scuola. Secchione era colui che studiava molto.Troppo. Studiavo come una brutta bestia e non giocavo con nessuno; Non andavo a ragazze, non fumavo di nascosto con i compagni, non facevo il filo alle negli dei professori, uscivo dal  Convitto incluso nella scuola  prestissimo al mattino per andare in chiesa a confessarmi, da un prete che poi si è rivelato un sozzone. Confessavo sedicenti masturbazioni notturne, pensieri loschi di sesso con le donne, di immagini di sesso femminile che non avevo mai visto e che dovevo fantasticare; Ero sempre perdonato. La chiesa, Sant'Antonio, era vicina alla scuola. La si raggiungeva in quattro e quattr'otto. Tasc era il diminutivo di brutto. Studiavo da brutto. Questo era l'unico modo per me di vivere, non potevo fare altro con l'educazione casalinga che avevo ricevuto, quella di un buon cattolico. Poi l'esempio del padre esaltato dalla moglie , mia madre.

Ho finito di leggere il libro di Ivan Jablonka: Un garçon comme vous et moi, pubblicato da Seuil.

I libro mi ha indotto a pensare  alla mia adolescenza, alla mia vita, al cambiamento brutale di rotta, alla distanza dalla via seguita da mia madre e mio padre. I miei non volevano quello che ho fatto e che sono diventato. Per riassumere devo dire che oggigiorno , a più di 80 anni, e dopo un'analisi durata quasi 9 anni ma incompiuta, devo spiegare come mai ho cambiato. Marco Daldini, a Ginevra, un amico di Savosa, un villaggio accanto al mio, mi chiede quasi ogni volta  che ci vediamo; come mai ho cambiato, perché non ho seguito le idee del "sciur maestro" ossia quelle di mio padre, perché sono diventato di sinistra, come riassumo le sue domande, perché non sono rimasto quello di un tempo che tutti si aspettavano e che forse i miei genitori volevano. L'associazionismo cattolico ( l'azione cattolica, gli scout cattolici, la ginnastica cattolica, gli insegnanti cattolici, il partito cattolico)  mi aspettava e mi avrebbe accolto a braccia aperte, ma non sono arrivato,  ho cambiato idea, fortunatamente direi. Adesso mi accorgo che ho pubblicato il testo incompleto. Mi sono sbagliato, ma vado avanti. Il libro di Jablonka mi ha aiutato ad affrontare le parti oscure della mia esistenza. Non ho un archivio, non ho memoria, ma cercherò di ricordarmi il più possibile gli eventi del passato.

samedi 16 janvier 2021

Complotti

 Ci sono specialisti nella fabbricazione di complotti e c'è gente che gongola quando si immerge in un complotto o quando riesce a costruire e a denunciare complotti di ogni genere, soprattutto politici. E' facile inventare complotti ma è molto più difficile smantellarli. Ci sono creduloni in giro. Poco contano i diplomi o gli studi che si hanno fatto. Si crede ai complotti come si crede in Dio. E' una questione di fede per cui ci sono universitari che accantonano la cultura universitaria, quella della razionalità, della verifica scientifica, ahimè molto superficiale, per abbracciare la teoria dei complotti e per costruire complotti.  Il numero crescente delle università e dei laureati ha parecchio facilitato questa tendenza.  Per esempio ci son tesi e laureati iperconvinti che l'incendio di Notre Dame a Parigi, nell'aprile scorso, sia stato provocato deliberatamente da una congiura, ossia da un complotto,  di mussulmani.  Ci sono professori universitari che si fanno un nome con i complotti , che si specializzano in complotti, che formano schiere di studenti nei complotti in cui credono, che scrivono libri sui complotti e che convalidano tesi di laurea se scritte in modo favorevole ai complotti .

La pandemia ha considerevolmente potenziato questa tendenza come lo ha fatto il terrorismo. Il mondo contemporaneo è zeppo di complotti. Per giustificare le denunce di incompetenza nella gestione della lotta contro il COVID19 oppure per giustificare le azioni terroristiche si sono inventati un sacco di complotti . La lotta contro i complotti è impari perché è come lottare contro la fede in Dio. Ogni parola è criticata e messa in un contesto complottistico . Dai complotti non si esce una volta che vi si è entrati. La diffusione delle reti sociali ( Facebook, Twitter, Instagram, per esempio ) ha alquanto facilitato la diffusione delle spiegazioni complottiste.

Tutti i paesi sono vittime di teorie complottiste . L'ultimo caso è l'assalto  a Washington DC.  negli Stati Uniti. Forse non solo negli Stati Uniti ma ovunque si è diffusa in un baleno la teoria del complotto: l'assalto dato al Parlamento statunitense sarebbe stato il frutto di un complotto ordito da cattivissimi agitatori sobillati da Trump. I capi  del complotto non si troverebbero tra la folla che ha invaso la sede del parlamento . I capi sono i malintenzionati. Sono sempre lontanissimi, per cui si possono cambiare a piacimento.

In genere i fautori dei complotti sono anonimi. Spiegano il complotto,  congiungono cause multiple, talora inventate di sana pianta,  ma non si vedono, né si conoscono. I creduloni li seguono; Scrivono messaggi anonimi. Gli agitatori sul terreno, coloro che si rifugiano dietro ai complotti, si vedono solo quando non sono mascherati. Sono in strada e si muovono come disperati. La polizia li insegue con tuti i mezzi a sua disposizione , anche quelli illegali cioè quelli non autorizzati dalle leggi in vigore. La polizia si serve pure dei complotti e talora i complotti servono non solo per convincere ma anche per punire. La presenza della polizia che dovrebbe salvaguardare l'ordine pubblico  e permettere l'espressione del dissenso,  i suoi modi di operare,  suscita altri complotti, ossia altre spiegazioni della situazione vigente con ricorso ai complotti. Il complotto serve a spiegare l'inspiegabile , a non arrendersi facilmente di fronte allo "statu quo", a dare una ragione a cui appigliarsi per spiegare, per conquistare seguaci, adepti. Il complotto è un'armai retorica dei furbi. Si pensa che con un complotto si riuscirà a convincere chi non crede ancora. ll complotto in genere è anche una semplificazione: si produce una spiegazione convincente, semplice, chiara, Dev'essere tale, se si vuole convincere. Purtroppo le situazioni sul terreno , così si dice, sono complicate e non sono affatto semplici come pretendono i fautori dei complotti. Ci  sono pochi ma bene affiatati complottisti, in genere i ricchi,  che difendono i propri interessi i quali sono molteplici, sono imbricati. I complotti possono essere una lotta tra ricchi e poveri, tra possidenti e nullatenenti. Ognuno ha i suoi complotti, ha i propri avversari da combattere e denunciare senza prove o con prove scarse. Quindi si inventano complotti. 

Talora la teoria dei complotti si collega a quella del capro espiatorio. La vendetta non è neppure lontana. Qui si dovrebbe leggere René Girard che ha effettuato analisi dottissime della violenza,  del capro espiatorio e messo in evidenza le basi religiose di questi fenomeni. Non vado fin  lì. Mi basta segnalare René Girard e ricordarlo. Avevo acquistato i suoi libri che sono tutti andati alla biblioteca del DFA della SUPSI a Locarno.

Ho sentito l'altro giorno  per la prima volta Emmanuel de Waresqueil , prof all'Ecole  des Hautes Etudes di Parigi. Era  una emissione di France Inter . De Waresqueil è uno storico che ha scritto moltissimo sulla rivoluzione francese. ll pretesto per l'intervista fu il suo ultimo libro: "La France entre en révolution. Sept Jours:17-23 Juin 1789". Titolo molto allettante. In realtà si è parlato di complotti e complottisti, di Gilets Jaunes e del loro fallimento, di anonimato nelle reti sociali, di democrazia. Secondo De Waresqueil i complotti ci sono sempre stati. Complottare è una costante della storia dell'umanità. Non solo la rivoluzione francese è il frutto di numerosi complotti , ma persino quella americana. L'assalto  al Campidoglio a Washington è un fatto banale. I veri campioni degli attacchi e delle invasioni al Parlamento sono i Francesi. Nell'Ottocento l'"Assemblée Nationale" è stata invasa più volte.Lo storico ne ha indicato le date. L'assalto al Parlamento non è dunque una novità. Quanto successo a Washington è stato amplificato dalle reti sociali e dalla TV che hanno permesso di vedere in diretta ovunque quanto succedeva nella capitale federale degli Stati Uniti e ai rivoltosi di farsi vedere nelle fogge più comiche ed anche più brutte di questo mondo. Non c'è dubbio che a Hollywood , nel cinema, sanno inventare sceneggiate migliori. A Washington non si trattava di una sceneggiata. si faceva sul serio e ci sono stati dei morti di mezzo. Il complotto non è riuscito ma il Campidoglio è stata occupato.