mardi 3 septembre 2019

Populismi

Se ne parla molto. Sul quotidiano Le Monde, in francese, due articoli che non sono un gran che sul populismo. Uno recensisce un libro che pretende di fornire elementi per capire il populismo e l'altro è una divagazione sul tema.

Il primo articolo, intitolato " Les ressorts culturels du vote populiste" ad opera di Françoise Fressoz è la recensione di un volume opera di un collettivo di 4 ricercatori intitolato "Les origines du populisme", casa editrice Le Seuil, Parigi. I quattro hanno effettuato un'analisi molto econometrica del populismo basata sull'analisi di informazioni provenienti da  diverse banche dati. Gli autori ammettono che nelle banche dati consultate ( le più fornite di Francia) mancano  indicatori che spieghino il fenomeno come per esempio "il livello di soddisfazione " oppure " la fiducia nelle altre persone". La deficienza di indicatori appropriati per spiegare la povertà, la miseria fu tra l'altro già segnalata anni fa in un opuscolo pubblicato se ben ricordo del BIT o "Bureau International du Travail" che ha sede  a Ginevra. Solo l'ultimo autore fra i quattro, Martial Foucault, non è un economista. Gli altri tre lo sono. Il secondo articolo è di Géraldine Schwarz, si intitola " Il faut parler aux populistes " Schwarz è un autore franco-tedesca, che abita a Berlino, e che nell'articolo  insiste sulla difficoltà di dialogare con i populisti i quali giuocano facilmente e volentieri con la contrapposizione tra" noi" e "loro". "Loro" sono gli avversari, i nemici, tutti coloro che denunciano i populisti. Ci sono spunti di René Girard, il professore francese deceduto qualche anno fa e che ha fatto carriera a Stanford,  nell'articolo, ma Géraldine Schwarz non è Girard.

Se si analizza il fenomeno occorre in primo luogo esprimersi al plurale e parlare di populisti. I populisti sono diversissimi tra loro: ci sono almeno i razzisti puri e duri, i poveri che non sanno più a che santo votarsi, le persone perse stordite dall'evoluzione tecnologica e che si rifugiano nel culto della tradizione e del passato ( i nostalgici "del bel tempo che fu" ), gli individualisti che si trovano isolati nelle società contemporanee. Mettere tutte queste persone nello stesso sacco è un errore. Quindi qualsiasi tentativo per sintetizzare le informazioni a disposizione è di per sé errato.

Pochissimi spiegano in modo convincente i populismi, come fu del resto il caso con il fenomeno dei "gilets jaunes" che tuttora dà luogo a molteplici interpretazioni ma a nessuna spiegazione soddisfacente.

Il grosso della questione sono le famiglie proletarie i cui votanti erano fino a poco tempo fa elettori di partiti di sinistra che davano loro speranza o illusioni. Molte sostengono ora l'estrema destra o i partiti politici che sbandierano temi di destra, come il razzismo, la preferenza nazionale, l'uscita dall'Unione Europea, ecc. Questi temi si ritrovano ovunque. Per esempio nei Länder  della ex DDR in Germania come il Brandeburgo o la Sassonia. Questi Länder hanno subito con la riunificazione della Germania un vero trauma.  Come dare torto a questi elettori , non solo sa quelli tedeschi? Vivono male la transizione da un tipo di società a un altro ma vivono anche fisicamente davvero male: le condizioni d'abitazione sono pessime, mancano i soldi per fare le vacanze o per vestirsi bene, per acquistare per esempio le scarpe alla moda , gli ospedali non sono più a portata di mano e nemmeno gli uffici postali. Peggio: pochi parlano o agiscono per loro. I porta-parole, gli interpreti del loro disagio sono latitanti o non sono più in grado di proporre soluzioni convincenti.  Sono poi svaniti i luoghi di ritrovo nei quali sfogarsi o compensare con gente di analoga sventura la propria miseria. Insomma la povertà è rimasta, le cause della miseria sfuggono, non si conoscono più, i luoghi nei quali consolarsi sono spariti, i portavoce tacciono. Allora ci si affida a chi sembra li ascolti, a  chi propone soluzioni rapide di conforto, a chi sembra più convincente. In parte si spiega l'ondata populista che appare ovunque. C'è proprio di avere paura perché mancano le spiegazioni e gli interpreti. Una parte degli elettori si rifugia nel mito, in un passato che non si è vissuto ma che si celebra. E`il ritorno delle false glorie passate. Le associazioni specializzate in questo genere di operazioni, come molte società sportive oppure le chiese, gongolano, raccolgono aderenti, vanno a gonfie vele. Siamo tutti in un'epoca come questa, disorientati. Almeno lo sono. Non so se c'è qualcuno che non lo sia.





lundi 2 septembre 2019

Decentralizzazione

Ho letto un articolo stimolante sulla decentralizzazione, non solo sulla decentralizzazione scolastica che è una parte della decentralizzazione. L'articolo è in francese, ed è stato pubblicato dal  quotidiano Le Monde di mercoledì 28 agosto, intitolato: "Un nouvel acte de décentralisation - oui, mais lequel? " scritto da Patrick Roger. Lo ripropongo qui in calce nel testo originale perché è difficile trovarlo su Internet. Infatti è riservato agli abbonati del quotidiano. Leggendolo ho pensato all' Italia, ai problemi, per non dire, alle difficoltà che si incontrano quando si propone la decentralizzazione. L'autore ha in mente  la decentralizzazione in Francia ma l'articolo si applica alla procedura di decentralizzazione in quanto tale ed è valido ovunque, in qualsiasi  contesto amministrativo.

Come ben si sa, in Francia vige un regime centralizzato e per esempio in Svizzera un regime decentralizzato ma i due paesi sono assai diversi. Quello alpino è piccolo ed ha poco più di 9 milioni di abitanti e quello francese invece è grande e contempla più o meno 70 milioni di abitanti. Si può ritenere che è più facile decentralizzare in Svizzerà che non in Francia. Infatti, i due sistemi di per sé non sono comparabili e le tecniche per governare un paese di 70 milioni di abitanti nn sono quelle utilizzate per un paese di 9 milioni di abitanti.  In Francia si tenta  da anni   di decentralizzare il sistema amministrativo  ma la decentralizzazione è imperfetta come si dice nell'articolo anche se si avanza poco per volta in quella direzione. L Francia odierna ha ancora un'impostazione centralizzata ma non è più centralizzata come lo era cinquant'anni fa. In Svizzera invece la decentralizzazione è un dato di fatto da decenni e il paese se la cava discretamente. E in Italia? Non si parla affatto di decentralizzare. I pochi che sollevano questa esigenza sono mosche bianche. Si parla invece assai di autonomia e si confonde spesso autonomia con decentralizzazione. Orbene, le due riforme, perché di riforme amministrative si tratta , non sono la stessa cosa anche se hanno punti di somiglianza in comune come la distribuzione delle  competenze decisionali tra i vari livelli amministrativi. Il problema sta proprio qui: nella distribuzione  delle competenze decisionali  e nel modo in cui queste competenze possono essere svolte o applicate. Questo è appunto un terreno ideale per l'abilità retorica italiana capace di disquisire a non finire su questi aspetti senza agire, senza fare nulla. Orbene: la decentralizzazione è una ridistribuzione dei poteri decisionali dal centro amministrativo o dal vertice dell'apparato amministrativo, ossia dall'amministrazione statale verso la periferia, ossia le regioni, i dipartimenti, i comuni, ossia dove esistono enti amministrativi che non sono al vertice dell'amministrazione statale verso mentre l'autonomia è invece il grado di indipendenza decisionale del livello amministrativo inferiore. L'autonomia è un modo di gestione mentre la decentralizzazione è un tipo di organizzazione decisionale . Ci sono regimi assai decentralizzati, come per esempio quello elvetico, nei quali gli enti amministrativi locali non hanno nessuna autonomia decisionale, ossia non sono in grado di prendere nessuna decisione che li riguarda oppure che possono prendere solo pochissime decisioni che li riguardano, che possono decidere in piena indipendenza,  ossia in modo autonomo, su faccende irrisorie, come per esempio il posteggio delle biciclette sul piazzale della stazione ferroviaria se ce n' è una oppure sul sagrato della chiesa. Le decisioni che contano come il livello di tassazione e quindi il conto preventivo delle autorità locali sono inquadrate al massimo da regole e regolamenti vari, su su fino alla costituzione. Le decisioni che contano sono prese dallo Stato, ossia dal vertice dell'amministrazione.

Restiamo per ora alla questione della decentralizzazione. I Francesi  per attenuare la procedura e fare finta di decentralizzare senza farlo usano il concetto di decentramento. Il concetto serve per mantenere nelle mani dello Stato  molte competenze decisionali chiave e per cederne pochissime su questioni marginali o che danno fastidio allo Stato centrale. Per esempio la riforme del sistema pensionistico e la riduzione dei quaranta e passa regimi speciali vigenti , ossia dei regimi pensionistici per professioni particolari, creati man mano dal Parlamento per soddisfare le richieste provenienti dagli enti che interpretano le richieste , i malumori della forza lavoro. La gestione del sistema pensionistico  resta in Francia saldamente nelle mani del potere centrale statale. Stessa cosa per la gestione ospedaliera oppure per la gestione del corpo insegnante.

L'autore dell'articolo usa due concetti interessanti per spiegare le difficoltà della decentralizzazione: quello di decentralizzazione ascendente e quello opposto di decentralizzazione discendente. Sono due modalità decisionali diverse. Come pure ricorre a un concetto chiave che è quello della sussidiarietà : ci sono enti amministrativi che vanno aiutati a prendere decisioni, a finanziarle e a controllarne gli esiti mentre ci sono enti amministrativi che se la cavano da soli. L'uniformità non è la regola nella gestione di un sistema decentralizzato e questo è per l'appunto un altro problema. E' poi errato ritenere , come succede spesso, che il livello decisionale superiore, è più competente, meglio attrezzato per decidere.







De gauche à droite : Hervé Morin,  Dominique Bussereau, François Baroin, donnent une conférence de presse le 3 juillet 2018 au siège (ADF) à Paris
De gauche à droite : Hervé Morin,  Dominique Bussereau, François Baroin, donnent une conférence de presse le 3 juillet 2018 au siège (ADF) à Paris JACQUES DEMARTHON / AFP

Analyse. Il y a presque un an, le 26 septembre 2018, les présidents de l’Association des maires de France (AMF), François Baroin, de l’Assemblée des départements de France (ADF), Dominique Bussereau, et de Régions de France, Hervé Morin, soutenus par le président du Sénat, Gérard Larcher, lançaient l’« appel de Marseille pour les libertés locales ». Les signataires se prononçaient en faveur d’une « nouvelle étape de décentralisation ».
« Notre démarche était prémonitoire », écrivaient-ils six mois plus tard, en rendant leur contribution au grand débat national. Le mouvement des « gilets jaunes » était passé par là ; ils voulaient y voir la confirmation du refus des citoyens « de voir les décisions publiques qui les concernent s’éloigner chaque jour un peu plus d’eux ». « Un acte III de la décentralisation », insistaient-ils, « est la condition préalable nécessaire à toute amélioration structurelle de la situation économique et sociale du pays », qui passe à leurs yeux par « la fin de la dépendance des collectivités à l’égard de l’Etat ». Le ton était ferme, déterminé, catégorique : une décentralisation, sinon rien.


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Dimanche 1er septembre, les mêmes acteurs se retrouveront à Epreville-en-Lieuvin, dans l’Eure, fief du président de la région Normandie, Hervé Morin. Au menu de cette rencontre, une table ronde sur le thème « La décentralisation est-elle la bonne réponse à la crise ? ». Le glissement sémantique n’est pas anodin : de la forme affirmative, les « trois mousquetaires » – qui, comme leurs illustres prédécesseurs, sont quatre – ont préféré opter pour une prudente formule interrogative.


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A l’issue du grand débat national, Emmanuel Macron a semblé reconnaître que la décentralisation, sous sa forme actuelle, « manque de cohérence »« On a souvent transféré des bouts de compétences avec une partie des financements qui allaient avec, soulignait-il lors de sa conférence de presse du 25 avril. L’Etat a gardé une partie de ses compétences, ce qui crée un imbroglio, mais surtout on n’a jamais transféré la responsabilité démocratique qui va avec. Une vraie République décentralisée, ce sont des compétences claires que l’on transfère totalement en supprimant les doublons, on transfère les financements et on transfère la responsabilité qui va avec. » Dit autrement : vous voulez plus de compétences, d’accord, mais assumez-les jusqu’au bout.

Une variable d’ajustement

Le chef de l’Etat a fixé une échéance : « Cette réforme, cet acte de décentralisation, devra aboutir pour le premier trimestre 2020. » Pour autant, plus l’horizon se rapproche, moins il s’éclaircit. Qu’attendent les protagonistes de cet « acte de décentralisation » ? Il n’est pas sûr qu’ils le sachent eux-mêmes. Dans leur contribution du 13 mars, l’AMF, l’ADF et Régions de France, rassemblées dans Territoires unis, proposaient de « refonder la décentralisation sur une autre lecture de la subsidiarité », principe selon lequel une compétence est exercée au niveau le plus proche de ceux qu’elle concerne tant que l’échelon supérieur n’est pas plus efficace pour le faire. C’est au nom de ce principe qu’à partir de 1982, avec la loi Defferre, puis, dans un deuxième temps, avec les lois Raffarin, dont la loi constitutionnelle du 28 mars 2003, l’Etat a progressivement accordé de nouvelles compétences aux collectivités.
Mais il s’agit là d’une subsidiarité « descendante » : le pouvoir réglementaire des collectivités est limité, l’Etat garde une mainmise de fait en ayant le pouvoir de décider d’imposer des dépenses contraintes aux collectivités, tout en limitant les ressources financières dont elles disposent pour y faire face. « La culture décentralisatrice n’est pas en France solidement établie. C’est particulièrement vrai pour l’Etat, qui appréhende encore trop souvent les collectivités comme une variable d’ajustement », jugent Vincent Aubelle et Nicolas Kada dans la volumineuse somme consacrée aux Grandes figure de la décentralisation, publiée sous leur direction (Berger-Levrault, 824 p., 49 euros).

Un triptyque exigeant

Ainsi, Territoires unis proposent-ils de « remplacer la subsidiarité descendante par la subsidiarité ascendante, en examinant d’abord quelles sont les missions qui doivent être exercées au niveau local et par quelle collectivité, puis de définir les missions qui, à l’évidence, ne peuvent être exercées que par l’Etat ». Dans cette situation, les collectivités se verraient confier, dans les compétences dont elles auraient la charge, « un pouvoir réglementaire d’application des lois se substituant à celui du premier ministre ». L’objectif est ambitieux mais sa formulation reste délibérément floue et générale : rien ne dit, en effet, que les différents niveaux de collectivités soient d’accord entre eux sur les compétences à exercer par chacun.


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« Repenser la subsidiarité entre l’Europe, l’Etat et les différents niveaux de collectivité » : c’est aussi ce que préconise l’Assemblée des communautés de France (AdCF) dans sa contribution pour « un nouvel acte de décentralisation » remise en juillet. Cependant, sa lecture diverge dans la mesure où, plutôt que de nouveaux transferts (ou « défausses ») de compétences, elle plaide pour « une gouvernance multiniveaux »« Il importe de bien établir le rôle d’autorité organisatrice des politiques publiques locales et de distinguer, entre les collectivités, les fonctions de coordination et celles de maître d’ouvrage », insiste l’AdCF.
Reste que la légitimité de la décentralisation repose sur un triptyque exigeant : renforcement de la démocratie locale, respect des identités culturelles et efficacité de la gestion publique. Tout nouvel acte de décentralisation devra nécessairement s’en inspirer, sous peine d’échouer.