mardi 30 mars 2021

L'esercito

Lo confesso. Sono stato un ufficiale nella fanteria di montagna elvetica. Ho passato parecchi mesi  a fare il soldato e adesso non so perché . Questa scelta fu un'imitazione della vita di mio padre che divenne colonnello nell'esercito elvetico . Quando ero un bambino , ossia prima degli anni 50 del secolo scorso, l'esercito era ovunque. In casa in primo luogo. Si parlava, con ammirazione, della mobilitazione di guerra. Allora, si era subito dopo la guerra del 39-45. La mobilitazione  fu per  tutta una generazione un'esperienza unica, vissuta profondamente, di cui si parlava moltissimo. Noi bimbi  si era educati, in un certo senso, alla vita militare. Gli ufficiali erano l'ultima ratio della difesa del paese alpino che era la Svizzera. Erano ammirati in casa mia. Non si diventava ufficiali se non si era un perfetto svizzero. Mio padre era allora un capitano, comandava la compagnia I/95 e mio zio , Giuseppe Beeler di Giubiasco che aveva sposato mia zia, ossia la sorella di mia madre ( erano le uniche due femmine tra numerosi figli maschi) era pure un ufficiale. Ho capito più tardi che la scuola ufficiali , l'ho fatta a Zurigo, era un modo di selezionare la futura élite della nazione.

Mio padre ha fatto carriera nell'esercito. Maestro, ossia insegnante e colonnello, due ruoli autoritari,  in competizione con lo zio Beeler. Tra i due cognati c'era anche una sorda rivalità . Dico questo per spiegare in primo luogo che ero cresciuto alla fine del periodo bellico nel quale l'esercito, ossia l'autorità, l'ubbidienza, il rispetto, la buona organizzazione, l' elvetismo ( ossia  l'ideologia allora imperante in Elvezia) contavano  ancora molto. Quando avevo meno di dieci anni , in casa si seguivano attentamente gli impegni militari del padre. Tutti i sacrifici fatti per facilitargli il servizio militare, erano non solo tollerati ma esaltati. Per esempio una vita spartana, molte assenze dovute ai corsi di ripetizioni annuali che dovevano essere preparati anche con  visite sul posto, quindi giornate di assenza da casa. Il servizio militare era criticato, debolmente, ma era anche rispettato. Non si scherza con il diavolo.Va detto che nell'esercito di milizia elvetico si andava ai corsi di ripetizione ogni anno. I corsi duravano tre settimane. Molti facevano di tutto per evitare questi corsi. Non so se erano operai o meno. Ci riusciva chi aveva le relazioni sociali che contano e chi faceva intervenire coloro che  contavano ( medici, avvocati, politici).

Mi ricordo che in casa giravano i libretti militari dei militi della compagnia che sfogliavo con curiosità, più o meno di nascosto dai genitori. Per anni il padre ha avuto  una macchina da scrivere , in quanto capitano, dell'esercito e che in un cassetto della scrivania teneva buste militari e carta da lettere militari. La sua scuola reclute, la  scuola per aspiranti ufficiali a Zurigo che aveva fatto  negli anni Trenta, le vicende della mobilitazione di guerra,  furono parte rilevante della storia familiare che vivevo e che mi si raccontava. La madre, italiana di origine, lo appoggiava molto e ci inculcava l'amore patrio. Ho saputo, molto tardi, che per sposare il suo amore, il nonno  paterno  le aveva scritto e aveva posto come condizione che diventasse svizzera, ossia, come si diceva allora, che si naturalizzasse. E' quanto fece. Era diventata una buona Svizzera. In tinello e nella sala da pranzo riservata per le grandi occasioni (poche), troneggiava una fotografia del suo matrimonio a Giubiasco. Si sposarono il  2 ottobre del 1939 in piena mobilitazione di guerra. Nella foto ufficiale il padre indossava l'uniforme di ufficiale dell'esercito. C'erano pure nel tinello-salone altri ritratti  fotografici  di lui  in tenuta di ufficiale. Pare che il padre avesse ricevuto un congedo apposito per il matrimonio. Più volte questa storia del matrimonio, un mese dopo la mobilitazione generale, fu raccontata in famiglia e non me la ricordo bene. A dire il vero non l'ho mai ascoltata con attenzione e non ho mai posto domande. Mi infastidiva. Accanto alla fotografia del matrimonio c'erano i ritratti del padre come ufficiale, come primo tenente (non era ancora capitano). Manifestamente mia madre era innamorata di quel bel ragazzo che era anche un buon partito per lei.  Più tardi ho saputo che doveva essere molto patriottica per meritarsi quel marito. Non doveva nascondere ai suoceri e ai cognati, i fratelli di mio padre, le preferenze elvetiche, doveva essere più svizzera di quanto fosse, meritarsi quell'uomo e soprattutto non imbrigliarlo, non mettergli bastoni tra le ruote, permettergli di fare la carriera elvetica che un maestro-colonnello doveva fare. Non so la verità. Non l'ho mai interrogata su questo punto. Con me non ne ha mai parlato. Fatto sta che quelle fotografie sono rimaste esposte al loro posto per anni, fino alla fine dei miei genitori. Ed ora, le stesse,  le ricevo da mio fratello, il secondo ,  che cura l'archivio fotografico famigliare.

Mi ricordo anche che il padre aveva dovuto apprendere ad andare a cavallo perché gli ufficiali con comando di truppa dovevano allora per forza distinguersi. Un giorno era caduto da cavallo ( non so se fosse colpa del cavallo o meno) e si fece assai male ad una coscia. Non seppi mai cosa ha avuto. Fu portato a casa, eravamo già a Massagno,  dove fu curato. Rimase sdraiato nel salotto sul divano per parecchi giorni. Lo curava la moglie, ossia mia madre, ma quando lo massaggiava non si poteva stare nel salotto.

In casa c'erano gli stivali suoi e un aggeggio speciale, il cava-stivali, cioè l'attrezzo per toglierli e forse per metterli, che era di legno. L'esercito elvetico era molto prussiano, molto germanico. Gli ufficiali andavano a cavallo e dal maggiore in su indossavano un cappotto di cuoio, ma quando erano più giovani, all'inizio della carriera,  portavano già stivali di cuoio nero e pantaloni appositi. Mi ricordo che il padre contestava il tocco prussiano dell'esercito e che non aveva un cappotto di cuoio. Se lo fece prestare quando divenne maggiore.

Ho ancora il ricordo di un suo primo tenente, Giuseppe Peduzzi, un imprenditore locale, diventato grande amico suo, che mio padre aiutava a installare una sartoria, e che in uniforme militare era venuto a prenderlo in auto per recarsi a un corso di ripetizione o a una preparazione del corso annuale. Noi non avevamo un' automobile.  Peduzzi sbatté  i tacchi sulla porta di casa e salutò militarmente mio padre, suo capitano che incontrava quasi quotidianamente nella vita civile. Quel rispetto, ancora allora molto diffuso nella società e quel ridicolo sbattere di tacchi, mi hanno sempre accompagnato. Non li ho mai scordati. Non capisco come mai fosse possibile mutare di registro da un giorno all'altro.

Poi è venuto il mio turno. Cresciuto in un ambiente militaresco, proprio negli anni nei quali si credeva molto all'esercito e molti parlavano con rimpianto della mobilitazione di guerra, non potevo non sottrarmi a questa pressione. Ero predestinato a diventare ufficiale. Il figlio di cattolici esemplari doveva fare carriera. Dovevo recitare una parte che dovevo apprendere a memoria. Essere preparato alla funzione . E così successe. Negli anni dell'adolescenza, ci fu dapprima "Gioventù e Sport" che esiste tuttora. I campeggi estivi degli scout e le trasferte erano finanziati da questo organismo che allora era para-militare. Si riceveva materiale militare assai rudimentale ( per esempio i teloni militari che servivano per costruire tende. Ce n'erano a iosa)  che si ordinava prima dell'attività. Logicamente la burocrazia era rilevante. Poi c'erano i  corsi per giovani tiratori . Si andava allo stand di tiro e si apprendeva a sparare, secondo un programma rigoroso.  Mi ricordo che in questa occasione mio padre sfornava il suo moschetto militare, un'arma, in parte lignea, che custodiva gelosamente in solaio. Il moschetto suo non lo si poteva toccare. Incombeva a lui in quanto ufficiale e insegnante, insegnarci a sparare. 

Muniva il moschetto   di un riduttore di potenza per i rari esercizi casalinghi  e si andava a tirare ai bersagli a 300 metri allo stand di tiro di Tesserete, un paesotto sito  a una decina di chilometri da casa che si raggiungeva con il tram.Lo stand era accanto alla stazione. Lì si scoprì che ero un pessimo tiratore e che forse non ero la persona che si tentava di modellare. Avevo compagni nel tiro molto più bravi di me. Non tutte le ciambelle riescono con il buco, così si dice dalle nostra parti.

La scuola reclute a Bellinzona fu un incubo. Quattro mesi per nulla. Sapevo già fare tutto alla perfezione . Ero preparato alla vita militare, ubbidivo, non contestavo l'autorità che aveva sempre ragione.

Alla scuola reclute, cioè alla naia, ho ammirato  il compagno di banco Mario Delucchi, ex ispettore scolastico,  che si è volontariamente ferito  buttandosi armato di tutto punto come un portiere sull'asfalto del piazzale, dopo averlo detto a  tutti  coloro che gli erano vicini che avrebbe compiuto quel gesto, per andare a casa e smettere quella buffonata. Delucchi ci riuscì. Non so cosa ha fatto in seguito. Mi ricordo benissimo il tenente Wölfensberger di Zurigo, detto Lupo, che poi sono andato a trovare a Zurigo . Era un giornalista che si è suicidato qualche anno dopo. Il comandante di scuola era un colonnello , un certo Regli, fratello del professore Regli che insegnava non so più cosa, al liceo cantonale di Lugano (allora nel 1960 nel Ticino c'era un solo liceo statale ). Naturalmente  Regli era amico di mio padre e fui scelto per fare il caporale, altro mese, inutile, e poi di nuovo la scuola reclute, altro quattro mesi, per convalidare i galloni di caporale. Impossibile per me rifiutare quell'esigenza. Avrei dovuto combinarne di tutti i colori prima, e non sapere affatto pulire un coltello o il fucile, per non essere scelto. Avevo scritto un bel NO nel formulario nel quale si sondava l'opinione delle reclute per una carriera militare. Ma nel colloquio con il  comandante della scuola, Regli mi disse che del mio rifiuto non se ne parlava affatto. Fui sgridato dal comandante di scuola. Cosa mi saltava per la mente? Così divenni caporale. Venne nelle prime settimane di formazione il maggior Franchini  un ex-maestro, collega di mio padre. Per forza dovevo essere bravo. Dovevo diventare ascetico come lui, difendere la patria, essere al servizio ella comunità, dedicarmi anima e corpo a quella funzione.   Presi molto seriamente purtroppo la funzione di caporale. Non sapevo fare altro. Avevo un gruppo di alcune persone da addestrare tra le quali un mio ex-compagno di scuola, Alberto Nessi, diventato poi un noto scrittore della Svizzera Italiana. Costringevo i poverini  ad annunciarsi a voce altissima ,  a smontare e rimontare in un  tempo record la culatta dell'arma, un fucile mitragliatore.  Sapevo fare benissimo quanto si aspettavano i comandanti, ossia rendere duttili personalità ribelli. Non me lo si è perdonato.

La scuola ufficiali la feci a Zurigo. Altri tre mesi. Fu una faccenda comica ma anche dura psicologicamente. La classe ( ossia il gruppo italofono) era molto ridotta.  C'era ( alcuni nomi che ricordo) Fernando  Pedrolini di Chiasso ( ex sindaco di Chiasso, diventato colonnello), Lorenzo Wullschleger di Mendrisio, Giorgio Pagani di Lugano, Firmino Vezzoli di Poschiavo, un Giacobbi che allora era a Bellinzona. Il capo classe era il maggiore Torriani di Agno, anche lui amico di mio padre. Dovevo essere il cattolico che diventa ufficiale e che quindi non va perso  per strada. Si deve fare di tutto per aiutarlo e non perderlo. Ero in buone mani.

Non sapevo cosa fosse una scuola ufficiali in Svizzera e soprattutto nella fanteria di montagna. Non mi rendevo conto della fortuna che avevo nel contesto elvetico, di essere scelto per quella formazione. Non ero affatto preparato per quel compito.Si fece di tutto per tenermi lì nonostante le avvisaglie , piuttosto inconsce, della mia debolezza e del mio rifiuto della vita militare che allora dominava il mondo elvetico ferocemente anti-comunista. Le esercitazioni militari, dette manovre, allora erano tutte tese a impedire un' invasione della Svizzera da parte degli eserciti sovietici. Adesso come adesso non aderisco a quel mondo ma allora? Mi piaceva stare alla larga da compiti fastidiosi e indossare l'uniforme di ufficiale, ma cominciai male quella scuola. Arrivai infatti in ritardo all' inizio. Tutti i caporali, futuri tenenti,  erano  schierati sul grande piazzale interno della caserma quando giunsi  lemme lemme alla caserma dalla stazione di Zurigo. Quando  mi accorsi del mio errore ( ero in ritardo) , corsi tra le risate del personale ausiliario a prepararmi, e raggiunsi in fretta e furia i compagni già in rango. Mi si tenne ugualmente. Non sapevo nuotare, esattamente come mio padre, e al tuffo in piscina  dal trampolino di tre metri, vestito di tutto punto, sono dovuti, non ricordo chi, venuti a prendermi nell'acqua della piscina sottostante. Ma ero saltato in acqua ed avevo fatto prova di coraggio;  in palestra,  con Monaco che comandava, al salto del cavallo ( uno strumento di ginnastica artistica) sono caduto male perché i tappeti per la ricezione erano stati mal messi  e mi ferii al tallone.  Per parecchi mesi zoppicai e fui dispensato dagli  sforzi fisici e soprattutto dalle marce. Infine alla corsa di orientamento dei 100 km che chiudeva la formazione, una gara tipica della scuola ufficiali di fanteria che anche mio padre aveva effettuato, svolta da me senza un allenamento appropriato, un medico ha dovuto seguirmi e farmi mangiare sale ogni tanto, perché ne mancavo e non sarei arrivato alla fine. La pattuglia cui facevo parte fatta di candidati ufficiali italofoni era divisa tra il lasciarmi indietro e andare in fretta, rallentare  per permettermi di seguire e aiutarmi. Credo che siamo arrivati ultimi. Non sapevo che eravamo cronometrati. Ignoravo pure che fosse una gara.  Nonostante tutti questi guai mi tennero nella scuola e Torriani fece di tutto per aiutami. Per forza gli ero riconoscente e facevo  bene o benissimo tutti i compiti che potevo svolgere. Non capivo quel che mi succedeva e effettuavo il tutto con dedizione. Si mandò a casa invece Giorgio Pagani, altro scout di Lugano, e non il sottoscritto. La prova finale fu la festa all'albergo Dolder di Zurigo, dove ci andai senza una femmina accompagnatrice benché fosse richiesta esplicitamente. Non ero un uomo e non sapevo ballare. Né lo so ora. Serbo una foto di un ballo su una musica russa, inginocchiato, con il maggiore Zumstein che era l'insegnante di tattica e che mi teneva le mani.  Mi fa una gran pena vedere questa foto. 

Poi tre mesi con le reclute come capo sezione. Sempre alla caserma di  Bellinzona. Non sapevo come prendere le reclute e cosa ci stavo a fare. Ho allora scimmiottato Marco Glättli di Lugano pure lui capo scout  nella sezione Ceresio di Lugano il quale sapeva invece benissimo cosa far fare ai membri della sua sezione e cosa ci si attendeva da lui. Lo vedevo in azione  e ne imitavo le gesta. Ero paralizzato.  Ha finito per prevalere l'unione con le persone. Mi venne in mente Lupo,  il tenente che avevo avuto qualche anno prima come recluta, un  esempio per me. Sapevo manipolare 30 persone. Come ex-scout riuscivo a stare con i soldati, a cantare con loro. E' quanto feci fino ad amalgamare il gruppo  che si è perfino dotato di una bandiera propria. 

Poi vennero i  corsi di ripetizione. Un vero e proprio "patatrac" e non vorrei qui ricordarli  tutti. Poco per volta ho sperimentato la stupidaggine dell'esercito e la mia opposizione è cresciuta con il cambiamento di  idee che stavo maturando. Allora credevo nell'esercito di popolo e anche Franchini diventato nel frattempo colonnello e comandante del reggimento ticinese ci credeva. Se l'esercito era di milizia  si doveva conoscere il territorio sociale che si pretendeva di difendere.  Fu quello che feci. Ero diventato nel frattempo ufficiale informatore ( non sapevo , nessuno me lo  aveva  detto, che gli  ufficiali informatori sono quelli  che torturano i prigionieri per farli  spifferare informazioni sui nemici). Non ricordo  nessun corso sui diritti delle persone e dei prigionieri in tempo di guerra. Magari ce ne sono stati. Avevo scelto di fare l'informatore solo perché ammiravo un collega che ha fatto carriera e che si chiamava Terzaghi e che allora mi spiegò che gli informatori erano più liberi,  effettuavano meno compiti militari. Infatti nell'ultimo corso di ripetizione che ho svolto  a Caslano, ebbi una sezione di informatori,  una combriccola di amici e con loro ne ho  fatto di tutti i colori. Per esempio si andava a piedi a Ponte Tresa , villaggio  al confine italo-svizzero, dove si beveva al bar un buon caffè e si mandava un civile arruolato ai bordi della Tresa, il fiume che separa la Svizzera dall'Italia, oltre confine, dove non potevamo recarci (perché eravamo armati  ed eravamo vestiti da soldati) a  comperare la stampa quotidiana italiana che si leggeva  comodamente seduti ad  un bar. Il mio compito era quello di raccontare fandonie al comandante di battaglione  e di annunciare false attività militaresche della sezione informatori per mascherare iniziative civilissime. 

Ho finito per detestare il servizio militare e per sostenere le iniziative a favore dell'obiezione di coscienza. A quei tempi gli obiettori finivano in prigione dopo un processo davanti a giudici militari che nella vita civile erano anche giudici avvocati e notai. Fu in questo ambito che mi recai a Zurigo per incontrare Lupo anche lui impegnato nello stesso fronte di lotta per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e per l' eliminazione della condanna alla prigionia degli obiettori di coscienza. Mi sembrava che gli  ufficiali della milizia, dell'esercito di popolo, dovessero difendere questa scelta e  schierarsi  pubblicamente per l'obiezione di coscienza.

Cosa ho appreso da questa attività? In primo luogo  ho imitato il padre, vissuto situazioni analoghe alle sue, ho svolto esattamente quanto si raccontava in casa, poi ho appreso a sbefeggiare un'istituzione come l'esercito. Ho anche capito che un'istituzione come l'esercito sapeva difendersi, era inattaccabile. Poi che l'esercito di milizia in Svizzera era uno strumento di  selezione dell'élite sociale che dirigeva il paese e che molte persone colte  erano disposte a tacere e a fare finta di svolgere seriamente i compiti militari, per esempio comandare, organizzare sfilate, partecipare a manovre militari, programmare corsi di ripetizione,  per consolidare il proprio potere, il proprio statuto. La carriera nell'esercito era una copia della carriera nella vita civile. Per taluni, per  pochi,  l'esercito era un ascensore sociale. I  capi dell'esercito si conoscevano tutti e si rispettavano l'un l'altro. Si aiutavano l'un l'altro. L'esercito era uno specchio del paese. Comandava chi comandava nel paese. Non potevo fare nulla per modificare una struttura del genere. Ero molto ingenuo e sprovveduto.Ma anch'io facevo parte di quel mondo.

La guerra d'Algeria

Questa è una faccenda francese, ma appena lo dico  subito ne dubito. Credo non sia affatto così: quel che è successo in Algeria  non è una faccenda locale. Come disse Frantz Fanon, il vate dell'anti-colonialismo, la guerra d'Algeria fu una lotta spietata d'indipendenza contro gli stati coloniali. Non ne sapevo nulla di tutto ciò a quindici anni ma in prima o seconda magistrale cioè nel 1955 e1956 mi intrigava assai quanto succedeva in Algeria e da solo leggevo ogni settimana "Le Figaro", il giornale  che allora non sapevo essere di destra, ma a quei tempi io lo ero, e che riferiva degli scontri  in atto in Algeria, delle battaglie in corso . Forse mi interessavano gli scontri , i mortali trabocchetti, le reazioni dei padroni governanti. Non lo so. Nessuno nella classe di soli maschi nella quale mi trovavo si occupava di quanto accadeva in Algeria dove la guerra d'indipendenza era iniziata nel 1994 ( In effetti l'indipendenza dell'Algeria era iniziata ben prima come     riferisce Edgar Morin nel libro delle sue memorie); I compagni si interessavano sopratutto della bomba atomica e di fisica nucleare , il che non era affatto mal, ma dopotutto questo era un soggetto alla moda, mentre nessuno si azzardava a seguire il conflitto algerino. Ogni mercoledì, ad inizio del pomeriggio (  si era liberi dalle lezioni il mercoledì pomeriggio) si organizzava in classe una specie di "Lascia o Raddoppia", il gioco televisivo della RAI condotto da Mike Buongiorno, seguitissimo da tutti. Le nostre domande vertevano sulla fisica nucleare. Mi ricordo del compagno che aveva vinto, un Pellegrini di Lugano. Dopo il gioco filavo a comperarmi "Le Figaro" alla libreria Romerio sita ,ancora adesso lo è, all'inizio o alla fine, dipende da che parte lo so si sia,  di Piazza Grande a Locarno.

Non ricordo affatto cosa ne pensavo della guerra d'Algeria e cosa mi intrigava così tanto . Ricordo solo che ritagliavo gli articoli del Figaro, che non ho più ritrovato, mentre ho tenuto molte altre cose di quegli anni. Nessun professore, non solo  di francese, mi guidò allora e mi fece leggere testi che mi permettessero di inquadrare quanto avveniva. Non so nemmeno cosa si dicesse in Italia allora dell'Algeria. Però i pochissimi militanti ( nella scuola ce n'erano pochissimi) andavano a Bellinzona, la capitale del Canton Ticino, alle sfilate contro la guerra nel Viet Nam. Non ci sono mai andato. Mi infastidivano, allora,  queste proteste stradali.  

Forse, della mia passione per la guerra in Algeria non ne avevo parlato con nessuno, ma non credo che essa fosse talmente segreta perché ricordo di avere svolto una esposizione sull'argomento in classe durante un'ora di francese , che era la lingua straniera obbligatoria che si studiava allora. Fu proprio durante quell'esposizione che mi sono ribellato alla classe che mi sfotteva a vive voce con il soprannome "Tasc".  Molti , tra i compagni,  sapevano che leggevo Le Figaro in francese e che avevo questa passione ma anche questa peculiarità era inserita tra le mie stranezze e soprattutto nella mia forsennata ambizione di essere un bravo studente, se non il migliore della classe. Ero un "Tasc" e la guerra d'Algeria finiva lì dentro. Non l'ho mai detto ai miei, a casa. Non ne sapevano nulla. Adesso mi viene il dubbio che quell'interesse per l'Algeria fosse un fuga, un modo per scappare di casa, per fare qualcosa di mio.

Sto leggendo il libro di Raphaëlle Branche: "Papa, qu'as-tu fait en Algérie?". Un librone di più di 500 pagine, scritto bene, che solo parzialmente spiega il silenzio francese sulla guerra d'Algeria, perché quella fu una guerra. I Francesi non capirono che una guerriglia si perde sempre . Lo capì De Gaulle.Ne fecero anche le spese gli Statunitensi nel Vietnam. A un certo punto del libro, i soldati di leva mandati in Algeria non capiscono  più nulla, no tortura e uccidono  pur di salvare le propria pelle.Molti si ubriacano. Branche descrive proprio bene questa immersione nella follia.  Anche in Algeria fu guerra , anzi una guerriglia, una lotta partigiana per l'indipendenza. L'esercito francese la perse. I Francesi torturano e uccisero per salvarsi e l'Algeria alla fine divenne indipendente. Questo fu il genio di De Gaulle. Smise la guerra combattuta in gran parte da soldati di leva e disse ai Francesi di cessare. Poteva andare diversamente? Forse. Nel libro, Branche collega le reazioni francesi  a quelle del 39-45 e a quelle del 14-18, ai padri dei soldati in Algeria, ai nonni, e alle loro famiglie. Vi si spiega la difficoltà delle autorità ad ammettere ufficialmente che si faceva in Algeria una guerra vera. I soldati di leva vennero dopo parecchi tentennamenti riconosciuti come combattenti ( quindi con un diritto ad una pensione) , e si spiega anche, in pagine assai belle, il ritardo della psichiatria francese rispetto a quella statunitense nello spiegare i turbamenti causati nei combattenti. Gran parte dei Francesi furono mal curati perché non solo mancavano le attrezzature ma perché le spiegazioni della medicina erano carenti. Branche spara  sui governi francesi  di allora. C'è di che.

Per anni, in Provenza, ho frequentato un vicino, decesso nel dicembre 2019, che aveva effettuato il servizio di leva in Algeria. Non l'ho mai interrogato su quel periodo. Adesso avrei molte domande da porgli ma lui non c'è più. Parlava molto raramente del suo soggiorno in Algeria, anzi non    ne parlava affatto. Mi disse soltanto che una volta all'anno andava a Carpentras ad un incontro di vecchi combattenti. Era un incontro di vecchioni, così parlava. I membri del gruppo  decedevano uno dopo l'altro ormai. Gli ex-combattenti sparivano sistematicamente. Ridacchiava raccontando questo. Ma anche lui non diceva nulla sul suo soggiorno in Algeria. Eppure Branche dice , a ragione, che nessuno  è uscito indenne da quella esperienza.

Poco tempo fa ho accennato in una conversazione alla madre di mia nuora  che aveva sposato un  Francese d'Algeria, un pied noir, che De Gaulle era stato un genio a porre fine alla guerra d'Algeria . Lei reagì vivacemente commentando la mia dichiarazione dicendo che forse si sarebbe dovuto potuto  fare diversamente. Sono rimasto di stucco e non ho reagito. Certamente si sarebbe potuto , ma la lotta per l'indipendenza e le battaglie anti-coloniali mi sembrano oggigiorno  talmente ovvie che non riesco proprio ad immaginare come lo Stato francese avrebbe potuto agire diversamente da come De Gaulle ha fatto, cioè sospendendo la guerra e avviando una trattava con gli Algerini sfociata per finire negli accordi di Evian che davano l'indipendenza all'Algeria.