samedi 30 mars 2013

Premio Goncourt 2012

In queste uggiose giornate di marzo ho letto il libro di Jérôme Ferrari "Le sermon sur la chute de Rome" che ha vinto lo scorso autunno il prestigioso premio letterario Goncourt in Francia. Il volume sarà certamente tradotto in italiano o magari è già stato tradotto. Il romanzo mi è piaciuto. Scrittura magnifica, molto diversa dal francese classico, con frasi lunghe come in italiano, una prosa mozzafiato ma molto leggibile.
Al centro del racconto, un bar di un villaggio della Corsica a metà costa, da cui si intravvede il mare in lontananza, frequentato all'inizio da omaccioni, da cacciatori di cinghiali, da grandi bevitori davanti all'Eterno. Nel libro si racconta la storia del bar ritirato da due giovani locali che interrompono studi brillanti in filosofia, uno su Leibniz e l'altro su San Agostino. La vicenda si intreccia con la storia di una famiglia locale, con zii, nonne, cugini sparsi nel mondo che spariscono uno dopo l'altro, secondo le leggi ineluttabili della natura. Tutti muoiono, in un modo o in un altro, nonostante le ambizioni, le carriere, i successi ed i fallimenti dell'esistenza. Le famiglie, anche le più unite, finiscono per disgregarsi e sparire nei meandri delle genealogie e dei cimiteri.
Il volume termina con la predica di San Agostino sulla caduta di Roma invasa dai Visigoti nella cattedrale di  Ippona assediata dai Vandali.   La predica è un omaggio a uno dei personaggi chiave del libro, ex-studente brillante, figlio di una numerosa famiglia di emigrati sardi, Libero Pintus.
Alcune pagine sono magnifiche. Ricordo quelle dedicate alla vigilia pasquale, al rito celebrato in Corsica, nella notte del sabato santo accompagnato dal canto polifonico di una corale di Corte.

Anche a me la liturgia del sabato santo mi era molto piaciuta quando cominciavo a capire qualcosa del mondo biblico. Per questa ragione mi è venuta voglia di citare questa lettura e questo libro. Mi sono ricordato di una spedizione primaverile agli inizi degli anni Sessanta,  un venerdì santo, a piedi verso un paesotto delle prealpi meridionali ticinesi, Isone, con un gruppetto di scout cattolici di cui ero allora responsabile. La vocazione dell'educatore mi è passata perché ho capito che non era la mia. La notte di venerdì l'abbiamo passata riparati in un cascinale a Gola di Lago. Questo toponimo esprime bene la natura del passo che permette di scendere da Nord a Lugano e di arrivare al Ceresio. Siamo stati svegliati la mattina presto dal proprietario del cascinale semi-diroccato, probabilmente un contadino locale, che ci ha insultati ben bene, a ragione. Siamo ripartiti in fretta e furia per arrivare a Isone a preparare con il parroco la veglia notturna del sabato santo. Ero molto orgoglioso di questa impresa. Mi sembrava di fare una gran cosa, di combinare una buona azione (l'aiuto a un parroco di montagna) con una liturgia impegnativa, zeppa di simboli profondi, per nulla superficiale. Prendevo sul serio queste occasioni, questi testi, un poco come la predica di Sant'Agostino sulla caduta di Roma, nella quale il vescovo di Ippona tenta di spiegare alle sue pecorelle che anche Roma può cadere, che le opere dell'uomo sono fragili, non sono eterne. Restano ogni tanto dei ruderi, dei ricordi, qualche fotografia ingiallita.

mercredi 20 mars 2013

Storia dei nonni che non ho avuto

Questo è il titolo di un libro uscito un anno fa in Francia, pluripremiato, che quasi di sicuro non sarà tradotto in italiano, per cui do le referenze bibliografiche originali:
Ivan Jablonka: Histoire des grands-parents que je n'ai pas eus, Seuil, 2012.

Si tratta di un libro inclassificabile: non è un romanzo, non è un saggio di storia, non è un giallo. E' tutto questo ed è altro. Il volume è stato premiato come testo di storia. Jablonka è un giovane storico, ha 38 anni, vive a Parigi. Il libro forse annuncia l'apparizione di un modo nuovo di fare storia, di scriverne, di parlarne.

L'autore è andato alla ricerca dei nonni paterni che non ha mai conosciuto, ne ha ricostruito le vicende prendendo lo spunto da pochissimi documenti, una foto, qualche testimonianza, in primo luogo quella del padre nato nel 1940 a Parigi, della zia, di cugini sparsi nel mondo, alcuni in Argentina, altri in Israele, altri negli USA. Da questo punto di vista si tratta indubbiamente di un libro di storia. In modo metodico, verificando i documenti , rimbalzando da un prova all'altra, con fiuto, con perseveranza, con rigore, incrociando pareri diversi,  l'autore tratteggia un metodo storico applicato ad un caso preciso, quello dei suoi nonni, Matès e Idesa Jablonka, una coppia di ebrei polacchi, nati e cresciuti a Parczew.

Si entra nel libro a fatica, all'inizio ci si muove storditi nel mondo degli ebrei di Parczew e si scopre che anche in quella comunità non tutto è roseo. In gioventù i due diventano militanti comunisti, si innamorano, si sposano e scappano dalla Polonia. Dove vanno a finire? Come molti altri a Parigi, come succedeva a molti clandestini. Arrivati a Parigi al momento del fronte popolare di Leon Blum inizia la trafila per uscire dalla clandestinità, per ottenere la cittadinanza francese. Più si avanza nella lettura più si è presi alla gola dalla nausea degli eventi che hanno preceduto lo scoppio della seconda guerra mondiale, dalla ricostruzione meticolosa degli alloggi dei clandestini, dalle loro condizioni miserevoli di vita.  Il libro diventa un giallo. Non gliene va bene una. Allo scoppio della guerra mondiale nascono due figli, il che vuol dire che una certa speranza e voglia di vivere probabilmente sopravvive in questa coppia nonostante la durezza della vita quotidiana.  Idesa, la moglie, non milita più. Matès, il marito forse, ma non ci sono prove per affermarlo. E' aiutato anche da anarchici francesi, ma lui si arruola nella Legione Straniera, una scelta fatta probabilmente con la segreta speranza di avere una carta in mano per ottenere un documento che lo faccia uscire dalla clandestinità. La Legione è mandata sul fronte di guerra nella Somme per affrontare l'avanzata tedesca nel 1940 ed è un massacro. Matès si salva, non si sa bene come, non ci sono testimoni oculari da intervistare. Il libro non vuol essere un romanzo. Gli atti eroici non servono, si ricade nella clandestinità con due piccoli da crescere e finalmente il peggio arriva. La coppia è arrestata al proprio domicilio nei paraggi del cimitero del "Père Lachaise" a Parigi da gendarmi francesi  nel 1943, è trasferita al campo di raccolta di Drancy alla perifieria di Parigi e poi finisce a Auschwitz ed è assassinata. I bambini si salvano perché al momento dell'arresto non erano in casa e la coppia li aveva affidati a un vicino di casa polacco con le carte in regola.

Per scrivere il libro l'autore   ha esplorato una ventina di archivi, in Francia e in Polonia. Montagne di scartoffie nonostante la distruzione di molti archivi preziosi avvenuto alla fine del conflitto bellico. Ma non tutto è stato distrutto. L'amministrazione burocratica non perde il vizio, annota tutto. Con pazienza l'autore cerca i nomi dei nonni nelle scartoffie, poi va ad incontrare testimoni oculari in Francia, in Polonia, in Israele, in Argentina, negli USA. Cerca di tenere le distanze da una vicenda che lo attanaglia, di scrivere un libro di storia. Credo che ci sia riuscito. Nella quarta di copertina l'autore afferma che l'emozione nasce dalla nostra tensione verso la verità. C'è una traccia di Michel Foucault in questo passaggio. Anche Foucault a suo modo era un innovatore nel mondo della storia.

Per concludere, il libro è anche la ricostruzione della scomparsa della cultura yiddish , di un mondo massacrato dagli eventi terribili della seconda guerra mondiale.

Anch'io non ho conosciuto mio nonno paterno. E' morto prima che nascessi. Era una figura autoritaria. Aveva ripudiato un figlio per una storia amorosa e l'aveva costretto ad emigrare negli USA. I suoi figli, i miei zii e mia madre non ci sono più. Non ho testimoni diretti di questo emigrante bergamasco di Costa in Val d'Imagna che ha fatto fortuna nella Svizzera Italiana.

dimanche 10 mars 2013

Lutto cantonticinese

Alcuni giorni fa è deceduto improvvisamente a Lugano Giuliano Bignasca. Per chi non lo sapesse ancora Giuliano Bignasca, detto Nano,  fu il fondatore della Lega dei Ticinesi, qualcosa di simile per filosofia politica alla Lega di Umberto Bossi e non è un caso se Bossi e Maroni erano presenti al funerale di Bignasca a Lugano.
Bignasca è un fenomeno a sé stante, un capo-popolo, una persona volgare, grossolana, senza peli sulla lingua, una figura carismatica che è riuscita ad ottenere i consensi di una parte cospicua dell'elettorato ticinese (circa un quinto degli elettori).
Sono partito dal Ticino prima che il fenomeno Bignasca si manifestasse ma se fossi rimasto lì ne sarei stato un bersaglio, che dico, una vittima.
Non è però del morto che intendo parlare ma di un articolo su Bignasca pubblicato dal Sussidiario e firmato da un certo Claudio Mésoniat che pure non conosco. Quando ho letto l'articolo sono rimasto di stucco. Come mai "Il Sussidiario", quotidiano elettronico, pubblicato in italiano, diffuso soprattutto in Italia,  con redazione a Milano e con  più di due milioni di lettori, ha pubblicato un articolo su Bignasca, ossia su un personaggio strano, squallido, volgare, magari , anzi senza dubbio intelligente anche se ciò non vuol dire nulla, che ha spopolato nel Canton Ticino, un angolino di Svizzera dove si parla ancora italiano e dove soprattutto si comunica in vari dialetti che invece sono quasi scomparsi nel resto d'Italia? Non capivo quale fosse l'interesse del "Sussidiario" per questa figura che per principio non interessa nessuno in Italia. Del resto in Italia si ignora quasi tutto del Canton Ticino e la maggioranza dei Ticinesi è ferocemente anti-italiana. Il necrologio di Mésionat  era molto alambiccato. Non si capiva bene cosa volesse dire. In conclusione tesseva un elogio allo scomparso al quale si attribuiva il merito della creazione dell'Università della Svizzera Italiana, una rivendicazione che risaliva al 1848 o giù di lì, mai realizzata (vorrei qui precisare che ho sempre avversato la creazione di un'università nel Canton Ticino), ma prima della coda dell'articolo Mésoniat si dilungava sui valori impersonati da Bignasca, in particolare sulla relazione tra opinione pubblica e politica. Bignasca avrebbe interpretato con intuizioni e fiuto unici gli umori dell'opinione pubblica cantonticinese e per questa ragione sarebbe diventato un uomo politico di grande rilevanza, un leader, un capo-popolo. Ho subito pensato a Grillo, a Berlusconi. Anche se da decenni non vivo più nel Ticino questo è pur sempre il mio paese d'origine e lì vivono i miei familiari, quelli di mia moglie, molti amici. Parecchia gente offesa, umiliata dalla "verve" polemica di Bignasca, attaccata per settimane con insulti di ogni tipo sul settimanale della Lega dei Ticinesi "Il Mattino della Domenica". Questa sofferenza, queste umiliazioni, questo terrorismo retorico mi erano noti. E' così che ho conosciuto Bignasca, mediante la testimonianza di persone che sono state violentemente attaccate, in modo indiretto dunque, senza nessuna esperienza personale.

Non tutto è roseo nel Canton Ticino. Ci mancherebbe. Ma la contestazione, la critica, le denunce si formulano secondo codici e regole nelle società avanzate. Lo scomparso ha violato questi codici ed ha raggranellato voti e appoggi, è stato ammirato. Per molta gente fu un faro, una guida, un esempio anche se la sua vita personale non fu proprio esemplare, ma questi sono affari suoi.

Ho pertanto inviato al redattore capo del "Sussidiario" (credo che lo sia, ma non ne sono certo) Federico Ferrau  con il quale ho avuto a che fare in passato per contributi sulla scuola una messaggio di protesta, d'indignazione e di domande. Volevo dapprima segnalare che Bignasca non meritava a mio parere l'attenzione che "Il Sussidiario" gli ha prestato e poi volevo capire come mai "Il Sussidiario" aveva deciso di pubblicare il contributo di Mésoniat. Ferrau mi ha subito gentilmente risposto, menando un po' il can per l'aia.  Mi ha subito rinfacciato che non potevo esigere che il "Sussidiario" non parlasse di un fatto di cronaca rilevante come il decesso di Bignasca. Ha quindi specificato che il contributo è stato chiesto dal "Sussidiario" a Mésoniat; poi mi ha informato che Mésoniat è il direttore del Giornale del Popolo a Lugano (spiegherò tra poco cosa è il GdP) ed infine mi ha invitato a mandare una lettera al "Sussidiario" per spiegare il mio punto di vista come cittadino elvetico. Ho declinato l'invito perché non ho nessuna voglia di occuparmi di queste cose, ma lo faccio qui nel mio blog dove esprimo alcuni miei sentimenti.
Per prima cosa constato con sorpresa che nella redazione del "Sussidiario" a Milano si sapeva chi fosse Bignasca e cosa rappresentava. Come mai? Non lo so.
Poi scopro che il signor Claudio Mésoniat è il direttore del GdP. Orbene il GdP fu e forse lo è ancora il giornale dei cattolici ticinesi, anzi fu e forse lo è ancora il giornale della diocesi di Lugano. Il vescovo di Lugano ha voce in capitolo e forse indica, nomina (non lo so) , licenzia il direttore. Il GdP fu creato e diretto per decenni da Monsignor Alfredo Leber, che in un certo senso fu il tutore, la guida, il maestro di mio padre. So cosa è il GdP, non so più cosa sia il cattolicesimo nel Canton Ticino, ignoro tutto della diocesi di Lugano ma conosco assai bene il vescovo attuale, Mino Grampa, ex-rettore del Collegio Papio a Ascona, settantacinquenne, che attende  per limiti di età di essere sostituito. Quando ho saputo che Mésoniat era il direttore del GdP lì per lì non ho più ben capito il senso dell'articolo ma poi ho scoperto che il direttore del giornale luganese è una persona impegnata in CL (Comunione e Liberazione) e "Il Sussidiario" è l'organo di una fondazione prossima a CL o forse anche è il giornale della stessa CL, anche qui ammetto che non lo so. A questo punto non posso altro che emettere ipotesi da verificare: sembra che il GdP incontri problemi finanziari, che la curia vescovile luganese sia pure in difficoltà finanziarie. Il giornale sarebbe tenuto in piedi con risorse e aiuti  di vario genere provenienti da diverse fonti. Si potrebbe supporre che tra queste fonti ci sia anche la potentissima CL di Milano e quindi....."Il Sussidiario". Se le cose stanno in questo modo, ma ripeto non ho nessuna prova in mano, allora si capisce l'articolo. A Milano sanno cosa succede a Lugano, al "Sussidiario" si è in relazione con il GdP e con il suo direttore. Il fatto d'attualità maschera una relazione finanziaria, una relazione di potere. Potrei a questo punto scrivere al vescovo di Lugano  per avere lumi in merito, ma non ne vale la pena . Si potrebbe sbozzare la risposta.  Mi tengo le mie ipotesi , non avrò nessuna prova in mano, ma non scorderò quest'episodio che conforta la mia scelta, quella di andarmene, di tirarmi da parte, di ignorare il mio paese, anche se non lo si può sempre fare.

lundi 4 mars 2013

Il tallone di Achille: autonomie, istruzione tecnica e professionale, docenza. Un'agenda per il nuovo governo.

Convegno internazionale dell'ADI a Bologna, marzo 1 e 2 , 2013

Da una decina d'anni, verso la fine dell'inverno si svolge a Bologna un convegno particolare perché ha un taglio internazionale comparato su questioni scolastiche di rilievo per il mondo scolastico italiano. Do' un colpo di mano agli organizzatori per impostare il convegno e per trovare i relatori internazionali. Il "deus ex machina" del convegno è la presidente dell'ADI Alessandra Cenerini, una figura atipica,carismatica, nel paesaggio scolastico italiano che ha il pregio di avere capito come si debbano sfruttare le comparazioni internazionali nella politica scolastica. L'incontro si tiene nell'affascinante biblioteca del convento dei Domenicani. Quest'anno l'incontro era imperniato sui i difetti del sistema scolastico italiano. Il titolo del convegno è di per sè eloquente: "Il tallone di Achille". Quest'argomento, scelto lo scorso anno, tratta alcune debolezze macroscopiche del sistema scolastico italiano. Talune  sono associate ad ingiunzioni indirizzate da anni all'Italia dalle Organizzazioni internazionali , per modernizzare il sistema scolastico, renderlo migliore, più efficace. Da decenni le comparazioni internazionali di ogni tipo hanno evidenziato i ritardi scolastici della scuola in Italia che sono non solo nocivi per gli alunni ma che si ripercuotono in maniera negativa anche sul PIL. I punti deboli della scuola italiana sono noti con buona precisione da anni, ma purtroppo nulla cambia nella realtà. Se ne parla molto, si producono molti testi giuridici, ma i difetti permangono. Riforme ne sono state proposte a iosa e perfino votate ma l'impianto del sistema è rimasto immutato. Non ho l'intenzione di affrontare in questa sede le molteplici cause di questo stallo. Del resto ci sono storici dell'educazione molto bravi in Italia che hanno analizzato questa "impasse" assai bene. Basta qui ribadire che il sistema scolastico italiano è paralizzato ed è quasi intoccabile. Ho la sensazione di trovarmi di fronte a un caso di rigidità sistemica particolarmente interessante. Il convegno 2013 dell'ADI propone di rivenire su tre temi spesso denunciati che in modo drammatico penalizzano l'impianto scolastico italiano:
il centralismo,
lo stato dell'istruzione e formazione professionale,
la formazione e il reclutamento del personale scolastico.
I tre temi sono stati affrontati secondo un canovaccio originale: due attori citano i difetti maggiori di ognuno dei tre temi e relatori internazionali descrivono situazioni alternative, casi di successo nonché le modalità adottate altrove per superare gli ostacoli. Riprendo qui di seguito, alcuni appunti presi al volo durante le relazioni. I testi completi saranno pubblicati nel corso dell'anno nel sito dell'ADI (www.adiscuola.it):

 Autonomia e decentralizzazione.

Il relatore internazionale è Roel Bosker , olandese, professore all'Università di Groningen. Bosker mescola nella sua relazione informazioni provenienti dai Paesi Bassi con dati dell' indagine PISA. La validità delle due categorie di dati per me non è comparabile.Per Bosker non esiste nessun sistema scolastico totalmente libero. Qui ha ragione. Tutti i sistemi scolastici sono regolamentati chi più chi meno dagli Stati. Non tutti i modelli autonomi funzionano bene e migliorano i risultati scolastici. Quindi l'autonomia non è di per sé una panacea.L'autonomia funziona però meglio quando esiste una rendicontazione esterna. In Olanda il sistema scolastico à caratterizzato da: - massima libertà di scelta della scuola. Lo stato è tenuto a garantire a tutti i bambini, ovunque essi siano, la possibilità d'istruirsi; - selezione del personale da parte delle scuole; - grande adattamento alle circostanze locali. Il sistema scolastico olandese però non è privo di difetti: - Molta segregazione sociale; - Concorrenza tra scuole per rubarsi i buoni insegnanti; - Costi elevati, inefficacia Bosker conclude con alcune raccomandazioni: Prevedere l'autonomia scolastica in certi campi;
Impostare la rendicontazione obbligatoria per ogni istituto scolastico;
 Lasciare allo Stato la responsabilità globale del sistema scolastico;
 Esigere la trasparenza da tutte le scuole;
Fornire una preparazione eccellente al corpo insegnante;
Avere eccellenti dirigenti.

Seconda sessione (venerdì pomeriggio): l'istruzione e la formazione professionale. In apertura Cenerini invita a partire da questo settore che è forse il più malandato del sistema scolastico italiano. Intervengono due relatrici: Cecilia Baumgartner e Malgorzata Kuczera. Baumgartner: cosa è l'apprendistato?


 Cecilia Baumgartner è la direttrice dell'apprendistato nella provincia autonoma di Bolzano. Riferisce sull'impostazione dell'apprendistato nel Sud-Tirolo. Per me nulla di nuovo poiché in Svizzera è la stessa cosa.Il modello d'apprendistato in auge nel Sud-Tirolo prevede due blocchi di quindici giorni: quindici giorni a scuola e quindici in azienda. La parte scolastica, suddivisa tra cultura generale e teoria del lavoro, à di 400 ore /annue. Baumgartner insiste su due punti: la necessità di collaborare con le aziende di essere in stretto contatto con loro e la necessità di aggiornare senza soluzione di continuità il modello dell'apprendistato o della formazione in alternanza tra scuola e lavoro. La novità per me è l'annuncio del cambiamento curricolare con la transizione dalle discipline alle aree d'apprendimento. Una cosa è certa: la soluzione dell'apprendistato è efficace contro la dispersione, è positiva contro la disoccupazione, induce ad apprendere un mestiere. Non si termina l'apprendistato se non si padroneggia il mestiere scelto o nel quale ci si è formati.

 Malgorzata Kuczera, analista di politiche educative, OCSE, Parigi, ha la responsabilità di descrivere il quadro internazionale. L'OCSE da anni insiste sull'importanza dell'apprendistato, sulla necessità di instaurare passerelle dall'istruzione di cultura generale alla formazione professionale, sulla necessità di differenziare l'istruzione e la formazione professionale, sulla necessità di sviluppare istituti tecnici superiori. Malgorzata ribadisce quanto importante sia fare esperienze di lavoro reale e non simulazioni artificiose di lavoro. Nel commento cito la hall di albergo costruita con sussidi dell'Unione Europea all'entrata dell'istituto alberghiero di Marsala che visitai nel 2001. Le proposte dell'ADI per quel che riguarda l'istruzione e la formazione professionale sono presentate in fin di giornata dai due attori. Le riassumo: - Promuovere la cultura del lavoro e rompere il circolo vizioso che la svaluta; - Creare un ciclo unitario di base di 8 anni, quindi fondere scuola media e scuola primaria. Qualcosa di simile era stato proposto dal ministro Luigi Berlinguer nel 1997, senza però andare fino in fondo perché, se ben ricordo, la proposta era quella di costituire un ciclo unitario di sette anni e non di otto; - Modificare i curricoli per applicare il principio che si impara facendo. Mi viene in mente a questo punto Jean Piaget che aveva teorizzato questo principio con il concetto di operazioni; - Creare l'apprendistato. Trasformare gli istituti tecnici in istituì a statuto speciale della durata di 4 anni Sviluppare gli ITS e regolamentare l'accesso che deve essere libero solo per chi proviene dalla filiera professionale.

 Sabato mattina: l'ultima sessione è dedicata agli insegnanti, ed è intitolata "Insegnanti in cerca di identità", altro tema scottante nella politica scolastica italiana con interventi di due relatori internazionali, il prof. Andy Hargreaves, inglese che insegna alla Boston University e Marcel Crahay, belga, titolare della cattedra di pedagogia generale della Facoltà di scienze dell'educazione di Ginevra.. Nell'introduzione alla sessione, Alessandra Cenerini ricorda che l'ADI à stata l' unica associazione che in Italia ha preso posizione contro le sanatorie che accettano nelle graduatorie persone abilitate con il criterio dell'anzianità. Hargreaves inizia con una citazione di Gramsci e ripete che ogni insegnante è un intellettuale. La qualità degli insegnanti è l'elemento più importante della scuola. Spiega il capitale professionale : capitale è una metafora. Sviluppa il concetto il concetto di capitale messo a punto con Michael Fullam, il collega che ha firmato con lui la maggior parte dei libri sugli insegnanti. Il buon insegnamento è tecnicamente sofisticato. La preparazione di un insegnante richiede una lunga formazione Tre elementi concorrono a costituire qualità dei docenti:

- Capitale umano
- Capitale sociale
- Capitale decisionale

 Il capitale umano comporta:

 - Qualifiche
- Conoscenze
- Preparazione
- Competenze

 Ci vogliono una decina d' anni per sviluppare il capitale umano di un insegnante.

 Il capitale sociale richiede meno tempo per costituirsi. Comporta quel che si può fare con gli insegnanti in servizio:
 - Fiducia reciproca
- Collaborazione
- Responsabilità collettiva
- Reciproca assistenza
- Rete professionale
- Supporto reciproco, condivisione

 Il capitale sociale degli insegnanti migliora il capitale umano di ognuno. Il contrario però non è valido: il miglioramento del capitale umano non accresce necessariamente il capitale sociale. Il capitale decisionale: questa è la forma più recente di capitale esplorata da Hargreaves. La metafora di partenza è quella della giurisprudenza: i giudici devono decidere quando giudicano, anche quando i casi non sono sono chiari. Quel che conta è il giudizio. Nella scuola ciò succede quando gli insegnanti hanno tra le mani i punteggi dei test. Orbene non ci si può limitare a dire che un punteggio può essere positivo o negativo.Qualsiasi punteggio implica una decisione. Ci vogliono circa 10 000 ore per sviluppare la capacità di giudicare ( una decina d'anni). Ne consegue che occorre investire in tutta la carriera per sviluppare la capacità di giudicare

 Marcel Crahay conclude la serie delle relazioni con un esposto denso di dati sulla formazione iniziale, gli stipendi, il supporto degli insegnanti in Europa. Crahay compara molto spesso la situazione italiana a quella finlandese. Il confronto è impietoso. I due sistemi scolastici applicano modelli del tutto diversi di selezione, formazione e gestione degli insegnanti. Crahay invita i responsabili scolastici italiani a cambiare musica il più presto possibile. Se non lo si farà si andrà dritti verso la catastrofe. Tutti i dati comparabili odierni lo comprovano, anche tenendo conto dell'imprecisione dei dati. L'ordine di grandezza non è però errato.Quindi l'allarme per l'Italia è serio.

Alessandra Cenerini riprende queste informazioni nella conclusione. E' ora di cambiare, tuona, di mutare rotta se si vuole una sistema scolastico efficace , equo. La situazione odierna è intollerabile.