jeudi 31 janvier 2013

Matrimonio per tutti

Il Parlamento francese ("l'Assemblée Nationale" come si chiama in Francia) è in ebollizione: vi si discute il progetto di legge che consente a tutti e quindi anche alle coppie omosessuali di sposarsi. Dibattiti incandescenti, interventi maestosi oppure squallidi. Si prevede una discussione di quindici giorni, con ben 5000 emendamenti depositati soprattutto dal campo della destra, che va dai centristi al Fronte Nazionale di Le Pen. Ostruzionismo parlamentare classico. La sinistra è compatta a favore della legge, una scelta di società che prende atto delle trasformazioni profonde che hanno modificato nel corso di questi ultimi sessant'anni la struttura del corpo sociale. Sessant'anni fa, tanto per fare un esempio, non c'erano ancora le pillole anti-concezionali e le gravidanze non volute erano evitate con espedienti e metodi di ogni genere. All'Assemblée Nationale francese si vive in questi giorni una contrapposizione classica: da un lato la destra reazionaria e conservatrice che difende il cosiddetto "ordine costituito" e dall'altro lato la sinistra progressista, che guarda al futuro, che rivendica una concezione liberale della società. Lo scontro tra queste due visioni opposte della società si riproduce anche fuori dal Parlamento. Le due fazioni hanno occupato nelle settimane scorse la strada con mega-manifestazioni a Parigi e in Provincia. Dapprima è sfilato il mondo cattolico con ben tre cortei immensi a Parigi il 13 gennaio scorso. Tutto l'apparato cattolico si è mobilitato per colpire a fondo la sinistra. La Francia è solo in apparenza laica ma è rimasta profondamente cattolica anche se il cattolicesimo francese da decenni non è molto visibile, non è più trionfante, non fa proselitismo, non produce grandi figure di intellettuali. Ma la Francia resta pur sempre "la figlia preferita della Chiesa". Il cattolicesimo francese vive nella penombra ma questa volta è sceso in strada. Le parrocchie sono state mobilitate, le famiglie numerose pure, i vecchi, gli scout, i militari di carriera con tanta prole, giovani e vecchi. L'organizzazione delle tre sfilate simultanee parigine è stata impeccabile. Tra i cattolici francesi esiste una frangia integrista, Civitas, che ha come stendardo il Sacro cuore. Martedì sera, 29 gennaio, quando è iniziato il dibattito all'Assemblée Nationale quelli di Civitas si sono riuniti davanti al Parlamento per una messa e per una veglia di preghiera allo scopo di intimidire i parlamentari invocando Dio affinché inspiri a quelli della maggioranza socialista un altro parere. Solo due deputati della destra hanno pubblicamente dichiarato di essere favorevoli alla legge. Per ora i mussulmani francesi oppure immigrati in Francia tacciono, non pregano in strada, non sfilano, lasciano fare. Dunque lo scontro è chiaro,è classico ed è storico perché è in ballo il riconoscimento di mutazioni sociali profonde, il riconoscimento dell'eguaglianza di tutte le persone, di tutte le coppie, di tutti i tipi di famiglia. Gli argomenti della destra sono noti: si tratta di difendere l'ordine naturale, un determinato tipo di famiglia eterosessuale che sarebbe il pilastro fondamentale della società: un padre, una madre ed i figli. La procreazione come finalità ultima. Il riconoscimento delle coppie omosessuali, il diritto di adottare ed elevare figli andrebbe contro natura, aprirebbe le porte a tutti i tipi di perversione. Il cardinale di Lione non ha esitato ad esprimersi in questo senso. Il sindaco razzista di Orange, l'onorevole Bombard ha depositato un emendamento per riconoscere la poligamia. Già che ci siamo andiamo fino in fondo, questo il nocciolo del suo ragionamento. Tra le famiglie cattoliche con carrozzelle e bambini piccoli mobilitati dalla gerarchia ecclesiastica per sfilare nelle strade di Parigi nessun dubbio in merito, nessun cartello che riconoscesse la mancanza d'amore, di rispetto imperante in molte famiglie, la violenza domestica, il dolore presente nella vita familiare di molte coppie, le gravidanze non volute, il massacro degli innocenti. Questa sarebbe la volontà divina. La famiglia è un nome magico, un mondo roseo, privo di spine. Quel che conta per i bambini invece è sentirsi amati, rispettati, sostenuti, incoraggiati, stimolati. Poco importa avere un padre o una madre di due sessi diversi. Indispensabile è avere attorno a sé persone attente, serene, che vogliono bene ai bambini. In molte famiglie del passato, in molte famiglie tradizionali, questa relazione non è mai esistita. Poco importano le testimonianze numerose di molti giovani cresciuti in famiglie omoparentali,sereni e felici, privi di qualsiasi problema d'identità perché non sono mai stati perseguitati da padri o madri nevrotici e autoritari.

mardi 29 janvier 2013

Educazione multiculturale

Nel no. 18 (nov. 22, 2012) della rivista New York Review of Books, Thimothy Garton Ash professore al St. Anthony College dell'Università di Oxford recensisce cinque libri sul tema del multiculturalismo. I libri sono i seguenti: Europe’s Angry Muslims: The Revolt of the Second Generation by Robert S. Leiken Oxford University Press, 354 pp., $27.95 Muslims in Europe: A Report on 11 EU Cities by the Open Society Institute 346 pp., available at opensocietyfoundations.org The Emancipation of Europe’s Muslims: The State’s Role in Minority Integration by Jonathan Laurence Princeton University Press, 366 pp., $80.00; $29.95 (paper) The New Religious Intolerance: Overcoming the Politics of Fear in an Anxious Age by Martha C. Nussbaum Belknap Press/Harvard University Press, 285 pp., $26.95 Immigrant Nations by Paul Scheffer, translated from the Dutch by Liz Waters Polity, 390 pp., $84.95; $29.95 (paper) L'articolo integrale è online e accessibile all'indirizzo seguente : http://www.nybooks.com/articles/archives/2012/nov/22/freedom-diversity-liberal-pentagram/?pagination=false Garton Ash prende lo spunto da queste pubblicazioni per riflettere sul multiculturalismo e sull'interculturalismo, nonché sul vivere assieme. Tutti questi temi hanno alimentato un ampio filone pedagogico in questi ultimi decenni, quello dell'educazione multiculturale e del vivere insieme. Condivido pienamente le argomentazioni di Ash: "la letteratura multiculturale, con la sua tendenza a classare le persone in funzione della cultura, spesso fallisce nel riconoscere la profonda diversità di questo mondo sempre più mescolato". Ash segnala che i Pakistanesi di Birmingham non hanno nulla a che spartire con quelli di Los Angeles, che i Turchi di Berlino non sono quelli di Sidney, che i Libanesi di Beirut non sono quelli di Parigi. Aggiunge anche che in Germania ci sono Turchi che vi sono nati, che parlano perfettamente il tedesco, che sono cresciuti in Germania. Questi non sono più immigranti ma sono persone con un background migratorio o sono dei "postmigranti" come li chiama Robert L. Leiken. Ma si sa anche che i di conflitti d'identità, che la schizofrenia culturale possono essere molto acuti nella seconda o nella terza generazione. Nel 1983 sono stato incaricato da Ron Gass allora direttore del CERI, il Centro per l'innovazione e la ricerca pedagogica all'OCSE di occuparmi di educazione multiculturale. A quell'epoca le autorità politiche erano confrontate a due problemi d'integrazione delle minoranze culturali: il finanziamento dei corsi di lingua e cultura d'origine e il finanziamento dell'educazione bilingue intesa come occasione offerta ai figli degli immigrati di svolgere una parte della loro scolarità nella lingua madre e non nella lingua ufficiale dell'insegnamento. Il primo tema era molto rilevante in Europa, il secondo negli Stati Uniti. Come succede di solito in simili occasioni l'OCSE ha iniziato ad occuparsi di queste questioni su richiesta di un governo, in questo caso la Spagna, che si poneva domande sull'opportunità di continuare a finanziare corsi di lingua e cultura spagnola all'estero per i figli di emigrati spagnoli. Su questo terreno il governo italiano era molto combattivo e rivendicativo. Il secondo problema era invece particolarmente scottante negli Stati Uniti e soprattutto in California. Quando fui incaricato di occuparmi di concepire un progetto su questi temi che l'OCSE non aveva mai affrontato in precedenza ho immediatamente deciso di prendere le distanze dall'approccio del Consiglio d'Europa che mi sembrava molto lacrimoso, errato, condiscendente verso le teorie dominanti nelle scuole. Mi sono subito reso conto che mi era stata data in mano una patata bollente perché molti governi non ne volevano sapere di parlare di multiculturalismo mentre altri invece, come l'Italia per esempio, si servivano dell'occasione per fare valere rivendicazioni arroganti, nazionalistiche. Ho quindi rifiutato di intitolare il progetto "Educazione multiculturale" o qualcosa di simile. Il nome del progetto fu il seguente "Educazione e Pluralismo culturale e linguistico" (acronimo ECALP per "Education and Cultural and Linguistic Pluralism"). A molti anni di distanza l'articolo di Timothy Ash conforta questa scelta che mi fa piacere. Non era un titolo brillante, attraente, ma tant'è. Era giusto. Ho iniziato il progetto con l'aiuto di Sophia Mapa un'assistente greca che ora insegna all'università Parigi 12, con la quale si è riusciti a costituire un nucleo di esperti internazionali indipendenti dai governi, attivi nelle università o nei centri di ricerca, come Nathan Glaser, Michel de Certeau, Dominique Schnapper per capire meglio il quadro teorico del multiculturalismo. Poi c'è stato un enorme lavoro statistico di raccolta di dati sui figli di immigrati a scuola per avere un'idea dell'ampiezza del fenomeno. Fui aiutato da Catherine Duchêne, una donna disabile, sorda, dalla nascita ma che aveva una eccellente formazione statistica, prematuramente scomparsa. Catherine fu una delle rare persone disabili a lavorare all'OCSE. Gass me l'aveva affidata. Ci si accorse subito che mancavano dati statistici e che la politica multiculturale ignorava le differenze. Un manuale scolastico, se ben ricordo in tre volumi, predisposto per gli studenti di origine turca frequentanti i corsi di lingua e cultura d'origine a Sidney erano stati adottati anche a Berlino. La cultura italiana d'origine era molto folcloristica imperniata su pizza e pastasciutta. Il governo turco si oppose alla pubblicazione del libro "Enfants de migrants à l'école" uscito nel 1987 perché non voleva che si parlasse dei curdi. Ne ho tratto la conclusione che allora la diversità culturale era inventata dalla scuola e non era che una ideologia, una teoria normativa che poco aveva a che fare con la realtà sociale. I bambini di immigrati erano etichettati come tali e non erano per nulla "empowered" come sostenevano gli Americani favorevoli all'educazione bilingue. Il fatto di frequentare corsi di lingua e cultura d'origine non migliorava i risultati scolastici e le loro prospettive di scolarizzazione. Purtroppo allora non esistevano valutazioni raffinate dei risultati scolastici. Si è dovuto attendere il 2000 con l'indagine PISA per conoscere meglio la situazione scolastica dei figli di immigrati nelle scuole europee. Nel frattempo avevo abbandonato l'OCSE per dirigere lo SRED a Ginevra (Il Servizio di ricerca sull'istruzione del Canton Ginevra) ed ho obbligato i ricercatori a non più considerare stranieri nelle statistiche scolastiche ginevrine i figli di immigrati a Ginevra, nati e cresciuti a Ginevra. In una relazione preparata per un convegno organizzato a Zurigo dall'ECAP (Ente Confederale Addestramento Professionale) della CGIL, sindacato italiano, ho scoperto nelle statistiche elvetiche che la maggioranza dei giovani della terza generazione di Italiani in Svizzera frequentavano prevalentemente i corsi di formazione professionale. Anche loro avevano seguito i corsi di lingua e cultura d'origine organizzati dal consolato italiano, parlavano lo zurighese ma erano relegati negli indirizzi scolastici meno promettenti, quelli che gli zurighesi evitavano. Non so se qualcosa è cambiato in questi ultimi dieci anni, ma l'articolo di Timothy Garton Ash mi fa pensare di no. I corsi di lingua e cultura d'origine per potenziare l'identità culturale dei figli degli immigrati e per migliorare la loro scolarizzazione esistono tuttora. Il governo italiano è meno "vociferous" in materia, ma è stato sostituito da quello portoghese. Tra i pedagogisti e gli insegnanti molti continuano a ritenere che questa sia la soluzione giusta per rendere la scolarizzazione dei figli degli immigrati che sono anche i figli delle famiglie povere, più giusta e più equa.

dimanche 27 janvier 2013

Yersin

Yersin: non ne avevo mai sentito parlare e l' ho scoperto leggendo il libro di Patrick Deville: Peste & Choléra, edito da Seuil, Parigi, premio Fémina 2012. Il libro non mi è molto piaciuto ma la figura di Yersin descritta nel libro mi ha affascinato. Alexandre Yersin(1963-1943) nato a Aubonne vicino a Losanna, dopo un soggiorno in Germania è diventati medico a Parigi ed è stato assunto nel gruppo di Pasteur alla fine dell'800.Fu non solo medico, ma esploratore, viaggiatore instancabile, biologo, ricercatore geniale, scopritore del bacillo della peste. Grazie a lui la peste, epidemia tremenda per secoli che ha decimato popolazioni intere, è stata definitivamente debellata. Yersin ha vissuto a fondo la "Belle époque", si è rifugiato in un villaggio costiero a Nord di Saigon, ha scoperto la zona di Dalat ed è morto prima che l'Indocina divenisse un inferno. Uomo elegante, amante del bello, delle novità e della comodità. Non ha mai smesso di leggere, di studiare, di innovare, di viaggiare. Alla fine dell'esistenza, quando non poteva più viaggiare, leggeva i classici latini e greci e li traduceva. Durante il mio soggiorno ginevrino di otto anni dal 1997 al 2005 ho incontrato parecchie personalità nella Svizzera Romanda che per un verso o per un altro gli assomigliavano, almeno per l'idea che me ne sono fatto con il libro di Patrick Deville e le fotografie di Yersin su Google e Wikipedia. Figure altrettanto eleganti, distinte, curate, colte, sapienti, curiose, ma anche arroganti e presuntuose. Molta generosità ed umanesimo conditi da un eclettico estetismo. Persone di tutte le età, tra le quali parecchi giovani di buona famiglia che dopo l'università partivano e partono tuttora in missione per la Croce Rossa in zone tremende per svolgere lavori ingrati sul terreno. L'aiuto internazionale li affascina, il gusto per l'esplorazione e l'avventura pure, nella Rodesia per esempio oppure nel Madagascar. Gente ammirevole, per certi versi, ma poco socievole tranne con i pochi nei quali hanno fiducia. Non sono come i fisici del CERN altra categoria di intellettuali e ricercatori che ho conosciuto a Ginevra. I fisici, almeno quelli che ho incontrato a Ginevra, sono di un altro stampo, vivono nella loro comunità di fisici, fanno ricerca scientifica e sognano il Nobel oppure una scoperta che li renderà noti mondialmente. Yersin ha scoperto il bacillo della peste, ha creato un'enorme fattoria nel Viet Nam per produrre siero e vaccini, ha formato sul posto preparatori di laboratorio. Nel libro, Deville accenna molte volte al funzionamento del gruppo di Pasteur e dei suoi eredi. E' lo spaccato di un cenacolo geniale, composto di ricercatori che si rispettano e si aiutano reciprocamente. Anche al CERN la comunità scientifica ha tratti analoghi. Ho sovente associato questi aspetti alla comunità dell'IEA che ha per decenni perfezionato, impostato e sviluppato le indagini internazionali su vasta scala di valutazione degli apprendimenti degli studenti. Anche questo gruppo era chiuso ed è rimasto chiuso, composto di persone consapevoli delle loro competenze, della loro bravura, ma settari, arroganti, sprezzanti verso coloro che non condividevano le loro opinioni, oppure verso gli estranei che non erano stati iniziati dai "padri". Il cenacolo è esclusivo. Forse qualcosa muterà con le nuove tecnologie, ma i ricercatori che ho incontrato nella grande maggioranza erano gelosi dei propri dati e del proprio sapere, li condividono solo con poche persone simili a loro , obnubilate dall'ammirazione per un certo tipo di intelligenza, per copie simili. Ho frequentato da vicino il gruppo dirigente dell'IEA, l'ho conosciuto assai bene, ed ho sentito sulla mia pelle la loro diffidenza, il loro disprezzo. Non avevo la loro preparazione, non ho partecipato alla loro avventura ed ho anche pagato dal punto di vista professionale per questo. Tutto ciò mi induce a ritenere che il mondo scientifico composto di persone iper-intelligenti, dal fior fiore del successo accademico, dal punto di vista umano non è sempre paradisiaco ed angelico. Conosco troppo poco Yersin per classarlo in una delle categorie di ricercatori che mi è nota, ma resto di stucco quando penso che durante i miei anni elvetici quando ho avuto modo di essere coinvolto nell'elaborazione e organizzazione di una strategia nazionale di promozione della ricerca scientifica in particolare nel settore dell'istruzione, non ho mai sentito parlare di lui. Eppure lui è nato a Aubonne nel Canton Vaud, ha conseguito la maturità a Morges nei pressi di Losanna, ha dialogato con una fitta corrispondenza per decenni con la madre e con la sorella rimaste in Svizzera anche se lui ha poi ottenuto la nazionalità francese. Non so se c'è traccia di lui nel mondo elvetico, nelle cerchie dove si discetta alla lunga di ricerca scientifica.

jeudi 24 janvier 2013

Django

Ho visto nel pomeriggio l'ultimo film di Tarantino "Django unchained". Bel western, violento come lo sono i film di Tarantino, con molteplici allusioni (clin d'oeil) alla storia del western e ai western all'italiana. Musiche di Morricone non per nulla. Vi recita Leonardo di Caprio. Commovente ricostruzione delle piantagioni di cotone nel Sud degli USA, lungo il Mississipi. Vicenda situata negli anni immediatamente precedenti alla guerra di secessione. Il film è tremendo ma la schiavitù della popolazione nera da parte dei proprietari bianchi delle piantagioni di cotone non lo era di meno. La lotta contro la schiavitù è durata a lungo, come lo dimostra per esempio la serie televisiva USA "Boardwalk Empire" sul trattamento degli afroamericani ad Atlantic City, la spiaggia chic di NY, agli albori del proibizionismo, agli inizi degli anni 20 del XX secolo. Due decenni fa sono stato ad Atlanta per partecipare all'incontro annuale della Società USA di Ricerche sull'istruzione (AERA). Mi ricordo che un pomeriggio mi ero appartato in un parco del centro città, nei pressi della fabbrica della Coca Cola e ad un certo punto, mentre ero seduto su una panchina del parco, si è avvicinata la polizia che mi ha invitato ad alzarmi e ad andarmene perché era pericoloso stare lì da solo in quel quartiere. Atlanta, la città di Martin Luther King, dominata dai bianchi e dal Ku Klux Klan ( il KKK che impiccava i neri ai piloni della luce). La storia USA di cui non sono uno specialista è una storia di violenza, di drammi, di massacri, di vendette ed assassini, di ipocrisia e cinismo forgiata dalla forza disinibita. Penso per associazione agli inizi dell'Unità d'Italia. Non siamo molto distanti come clima. Di umanesimo non c'è traccia. Coloro che ostacolano gli affari sono fatti fuori, la vita umana non conta nulla, si uccide e si tortura a freddo, in maniera spietata. Il gangsterismo non è che una manifestazione estrema di questo clima. Molti figli del popolo si sono fatti strada con le armi, sono diventati diventano molto ricchi con la furbizia e la violenza ed è finita anche che si sono ammazzati tra loro. Questa non è una storia edificante. Quando vedo ricostruzioni romanzate come quella del film di Tarantino oppure quella delle serie televisive sulle lotte di potere non posso non pensare alla mitologia scolastica, all'angelismo pedagogico, alle illusioni di molti insegnanti, alle modalità di redenzione dei ceti poveri. Inutile raccontarsi storie edificanti. Le nostre società sono state costruite sulla prevaricazione, sull'egoismo, sul gioco spietato, sui divertimenti mortali. Come spiegare nella scuola questa squallida e triste situazione? Forse non c'è nulla da spiegare. Molto alunni, anche piccoli, quando vanno a scuola già sanno che la vita è questa. L'altra, inneggiata dall'ordine pedagogico e dagli illuministi, è poesia. La società non è per nulla arcadica. Eppure qualcosa si può e si deve fare perché ci sono troppe vittime.

mardi 22 janvier 2013

Ritmi scolastici:sciopero a Parigi

Mobilitazione generale in famiglia a causa dello sciopero degli insegnanti a Parigi: scuola dell'infanzia chiusa per la nipotina. Siccome entrambi i genitori lavorano si è dovuto ricorrere ad aiuti esterni. Le famiglie erano state avvertite da alcuni giorni. Lo sciopero era annunciato ed è stato massiccio. I sindacati della scuola si sono accodati al movimento. Adesione massiccia del personale scolastico: secondo le stime tra l'80 e il 90% degli insegnanti delle scuole primarie della città hanno scioperato. 372 scuole primarie chiuse, più della metà. Lo sciopero è incomprensibile per la maggioranza della popolazione che sopporta, subisce e si arrangia. Gli insegnanti chiedono che il governo ritiri la riforma dei ritmi scolastici. Tra le critiche maggiori: il prolungamento di 45 minuti della pausa di mezzogiorno che durerà dalla 11:30 alle 14:15, la mancanza di mezzi e di aiuti, la fretta con la quale si impone un nuovo orario scolastico. A Parigi vige la settimana di 4 giorni: i bimbi vanno a scuola il lunedì, il martedì, il giovedì e il venerdì. Sono a casa il mercoledì e il sabato. Non è davvero una soluzione ideale , ma a Parigi gli insegnanti della scuola primaria non ne vogliono sapere di fare mezza giornata di più di scuola il mercoledì mattina, poiché il sabato ormai non si tocca più. Pediatri, pedagogisti, esperti di ogni genere dibattono sulle malefatte o i benefici dell'interruzione del mercoledì. Gli insegnanti la ritengono benefica. Le famiglie si sono adattate e subiscono, ma la maggioranza vuole il sabato libero. Dunque non resta che il mercoledì. Poveri insegnanti , verrebbe voglia di dire. I bambini sono stanchi come loro. Molti restano in scuola fino alle 18, seguiti nel cosiddetto tempo libero da un altro tipo di personale che a sua volta teme di perdere il lavoro perché questo personale pagato dalla città si occupa dei bambini anche il mercoledì e il sabato. Le famiglie che non possono farne a meno affidano loro i bimbi. Poveri bimbi, ma forse è meglio così piuttosto che stare in casa con genitori nervosi, irascibili, che non possono giocare con loro. Un bel pasticcio tutto questo. Da anni si discute in Francia di cambiare il calendario scolastico e i ritmi scolastici (pudicamente questo è il sintagma per indicare l'orario di funzionamento delle scuole). Raccolgo materiale da anni sulle riforme in corso un po' ovunque. Quattro punti sono per me evidenti: il primo è l'obsolescenza di questa discussione quando già si intravvede l'emergenza di istruirsi come, quando e dove si vuole. Forse tra una ventina d'anni sarà cosa fatta e il dibattito odierno non avrà più senso. Le scuole saranno case del sapere aperte 24 ore su 24 tutto l'anno per tutti, bimbi come adulti. Il secondo è l'ingerenza dei centri di potere, commerciali, turistici che si sono organizzati in funzione delle vacanze scolastiche e che si oppongono a qualsiasi modifica dello status quo. Il terzo punto è l'assurdità di un calendario scolastico imposto e gestito dal vertice dell'amministrazione scolastica. Dal Nord al Sud della Francia, dall'Est all'Ovest le condizioni climatiche sono del tutto diverse. Il calendario scolastico va gestito localmente e discusso con le famiglie e il personale scolastico. Il quarto punto riguarda l'equità: chi ci perde sono i poveri, le famiglie disagiate che vivono in condizioni difficili, poco decenti, rumorose, con genitori stressati che non hanno aiuti attorno per occuparsi della figliolanza. Mi sembra impossibile riuscire a risolvere questo rebus. Solo la scomparsa del sistema scolastico così come è ora obbligherà a ripensare in toto la questione.

lundi 21 janvier 2013

Formazione e istruzione professionale

Abito accanto ad un liceo professionale parigino, il liceo Jean Lurçat nel tredicesimo quartiere. E' un mega-liceo con più di 1000 studenti, in maggioranza di colore, con una sezione di formazione terziaria nel campo del commercio o del diritto internazionale, qualcosa di simile. E' il livello BTS, che qui chiamano BAC+2 , ossia due anni di scuola dopo la maturità per ottenere un diploma più spendibile nel mercato del lavoro. La popolazione che frequenta questo liceo non è quella che frequenta i celebri licei parigini come Henry IV o Louis Le Grand o Fénelon che non sono tra l'altro geograficamente molto distanti. E' una popolazione che proviene dai ceti popolari o poveri. Un mondo del tutto diverso. Ho visitato il liceo Lurçat che è stato appena restaurato. Aule piccole, corridoi lunghissimi, bianchi come in un ospedale, LIM ovunque ma non so se sono utilizzate. Sembra di no. Nel vicolo cieco parallelo al liceo ci sono una decina di immobili sorti alla fine del XIX secolo, ognuno con un proprio portone massiccio d'entrata. Durante le pause tra un'ora e l'altra, oppure durante una mezza giornata ci sono ragazzine del liceo che vengono a sedersi sugli scalini d'entrata, che faccia bello o brutto tempo non fa differenza, che chiacchierano ad alta voce e fumano, non so bene cosa. Non è affare mio. Questa mattina, uscendo di casa, ce n'erano tre,tutte piuttosto obese, una delle quali aveva perso gli oggetti dell'astuccio ed i quaderni nella melma della strada innervata ieri . Ridevano. Lì nessuno le controlla. Dopo la pausa tornano in classe. Talora ce ne sia una sola, seduta in lungo e in largo davanti al portone di una casa, che passa ore al freddo (almeno per me). Penso a loro dopo avere letto un articolo sulla licealizzazione della formazione professionale in Francia, sulla morte di questa filiera, proprio come è successo in Italia e faccio il confronto con quanto ho visto in Svizzera, con le indagini svolte dai miei collaboratori dello SRED a Ginevra sulla formazione professionale (Ho citato su Twitter quest'articolo e intendo farne una presentazione nel mio sito www.oxydiane.net). Anche a Ginevra la popolazione che segue la filiera professionale dopo la scuola media non è quella che va al liceo. Per altro a Ginevra come nel Canton Ticino (due appendici estreme della Confederazione Elvetica, la prima in contatto con la Francia e la seconda con l'Italia) la politica scolastica ha promosso la licealizzazione. Questi due sistemi scolastici sono quelli che hanno la percentuale più elevata di studenti che conseguono la maturità di cultura generale tra tutti i sistemi scolastici elvetici che son ben 26. Ciò nonostante la filiera professionale resta di qualità anche perché lo Stato Centrale, ossia l'amministrazione federale che risiede a Berna, la capitale della Confederazione, impone regole e principi di qualità, si potrebbe perfino parlare di standard di qualità, da rispettare che sono verificati, ispezionati regolarmente. Se non si applicano gli standard saltano i sussidi. Nulla di simile in Francia ed in Italia (conosco meno bene il caso spagnolo) dove la centralizzazione della politica scolsstica ha optato per scelte molto accademiche. Anche in Svizzera la filiera della formazione e istruzione professionale è alquanto normalizzata dall' amministrazione centrale ma è applicata rispettando le competenze degli enti regionali, ossia i cantoni come si chiamano in Svizzera. Le decisioni sono concordate anche se, in un certo senso, prevale sempre la maggioranza tedesca. Ritengo che questo sia un bene e una fortuna per la parte latina della Confederazione che è obbligata a rispettare indirizzi di politica scolastica che probabilmente non sarebbero stati applicati.

dimanche 20 janvier 2013

Mali

Sono favorevole all'intervento militare francese nel Mali anche se per principio sono un pacifista. Si doveva fare per impedire lo scempio che stava distruggendo un grande paese africano (Ci sono altre operazioni losche, non militari, non dettate dal fanatismo religioso ma dalla speculazione finanziaria sulla terra agricola e fertile ai bordi del fiume Niger, che lo stanno distruggendolo, ma non è qui il momento per parlarne). Non sono mai stato nel Mali ma mi pare di conoscere questo immenso paese assai bene per svariate ragioni che qui non voglio esporre. La guerra in corso mi fa pensare ad un caro amico purtroppo estinto prematuramente, Harouna Touré. Harouna era un gentiluomo, di statura elevata, distintissimo, colto. Una persona saggia. L'ho conosciuto nel comitato scientifico del PASEC (http://www.confemen.org/le-pasec) il programma di analisi dei sistemi scolastici dei Paesi francofoni il cui segretariato si trova a Dakar.Era il rappresentante del Mali nel comitato. Ne approfitto per dire due parole sul PASEC. Per due anni dal 2006 al 2007 sono stato un membro del comitato scientifico del PASEC la cui missione sarebbe quella di valutare e misurare i sistemi scolastici francofoni, in particolare quelli africani. Il programma è molto sostenuto dal Canada francofono, ovviamente dalla Francia e molto meno da altri stati francofoni dell'emisfero Nord. La peculiarità del PASEC consiste nell'impostare valutazioni su larga scala degli apprendimenti dei bambini che frequentano le scuole nei sistemi scolastici africani francofoni, di analizzare questi dati, di formare alla cultura della valutazione gli operatori scolastici soprattutto nei paesi africani e in senso lato nei paesi della francofoni. Il programma esiste da una ventina d'anni. Durante i miei due anni di presenza nel comitato scientifico del PASEC si è tentato di consolidare i programmi di valutazione senza un grande successo. La valutazione degli apprendimenti scolastici nei Paesi africani non può essere svolta come la si fa nei sistemi scolastici avanzati, ma ciò non impedisce di scimmiottare queste valutazione. Ne risultano analisi più o meno attendibili, svolte in condizioni inverosimili, tra un colpo di stato e l'altro, più o meno comparabili. Quando ho capito che non si poteva fare nulla per cambiare la musica ho dimissionato. Avrei potuto restare in carica per due mandati quadriennali. Ho incontrato a Dakar, nel segretariato del PASEC ricercatori africani molto bravi, persone di tutto rispetto, competenti, purtroppo vittime di soprusi e con scarsa libertà di manovra. Non sono loro che comandano, ma i paesi finanziatori e i rappresentanti delle élite africane che occupano i posti dirigenziali con tutti gli annessi e connessi di una gestione all'africana eredita da decenni di sudditanza coloniale. Dunque è nel corso dei alcune riunioni a Dakar per il PASEC che ho avuto modo di conoscere Harouna e altri colleghi africani. Penso a lui, a quanto mi diceva del Mali, poco in verità, del suo impegno nell'amministrazione scolastica del Mali. Poi il Mali mi fa pensare a Tumbouctou (scrivo il nome della città con la grafia francese), un mito della mia infanzia. Nel XVI secolo l'università di Tombouctou se non erro era frequentata da circa 25000 studenti. E' noto a tutti che a Tombouctou esisteva una grandiosa biblioteca a quell'epoca. Del resto è in corso un progetto internazionale per digitalizzare i manoscritti sopravvissuti e salvarli in questo modo. Il grandioso passato dell'ex-impero del Mali mi stringe il cuore perché ormai sono rimaste solo le tracce. La colonizzazione, la schiavitù, ha distrutto tutto. Oggi si arranca per riportare il paese a un livello di sviluppo decente, si spendono anche somme colossali ma la miseria, la subordinazione, il servilismo e la corruzione persistono. Non ne vedrò la fine, ma so di sicuro che non si riparerà nulla con la scuola soprattuto se questa imita maldestramente il modello dell'emisfero Nord. La soluzione non risiede neppure nel sistema dei marabù, questo va da sé, e mi sento molto solidale e prossimo ai pochi gruppi di ricerca scientifica africani che lavorano su soluzioni alternative, che esplorano altre modalità di scolarizzazione, che le valutano e le analizzano, ma questi gruppi lavorano quasi nella clandestinità, con pochissime risorse, con scarsi sostegni occidentali.

mercredi 16 janvier 2013

Valutazione degli insegnanti

In questi giorni è stata pubblicata la terza relazione del progetto finanziato negli USA dalla Fondazione Bill$Melinda Gates sulla valutazione degli insegnanti, un progetto triennale che ha mobilitato moltissime persone e che per molti versi è stato alquanto innovativo per esempio articolando test sul valore aggiunto, questionari degli studenti, registrazioni video di lezioni, osservazioni in classe da parte di colleghi o di specialisti esterni alla scuola da parte di un osservatore o più, fino a quattro osservatori. L'indagine moto ambiziosa fornisce una miniera di informazioni su come procedere o non procedere, sulle certezze accumulate, sugli errori da evitare, sulle esperienze ormai inutili perché superate da un'indagine in grande stile come l'indagine MET, svolta con estremo rigore. Tutto il materiale raccolto dall'indagine può essere consultato.Ho segnalato l'indirizzo web utilizzabile per scaricare l'intero documento nel mio sito www.oxydiane.net. La valutazione degli insegnanti è un problema scottante che suscita reazioni passionali e violente. Eppure da quando esiste la scuola pubblica gli insegnanti sono sempre stati valutati, in particolare dagli ispettori. Mi ricordo i miei primi anni d'insegnamento: ogni tanto giungeva l'ispettore, si sedeva in un angolo, ascoltava la lezione, poi esigeva di vedere il registro e altri documenti ufficiali che non ricordo più e poi se ne andava. Non ho mai tratto nessun beneficio da queste visite, non mi ricordo in realtà di avere appreso qualcosa dagli ispettori. Una sola volta un ispettore capitato in classe più o meno alla vigilia di Natale mi aveva rimproverato di avere dedicato troppo tempo alla preparazione del Natale. Era una classe del sesto anni di scuola. L'osservazione era pertinente e lo sarebbe ancora di più oggigiorno con classi multiculturali. Tra insegnanti ci si passava una sola raccomandazione: quando giunge l'ispettore (di solito le visite non erano annunciate) la classe doveva alzarsi in piedi di scatto e salutarlo coralmente con un sonoro benvenuto. Non so come la classe potesse riconoscere l'ispettore. Forse era l'insegnante che lo segnalava agli studenti interrompendo la lezione. In ogni modo, un bel benvenuto, educato, corale, garantiva il successo dell'ispezione. Nella storia dell'educazione si parla di insegnanti perseguitati dagli ispettori per ragioni politiche, o di insegnanti lasciati in pace per una decina d'anni. L'arbitrarietà di queste modalità d'ispezione era flagrante. Gli ispettori sono stati la "longa manu " del potere. Erano insegnanti ossequiosi, incompetenti , che avevano una visione olistica della buona scuola. Preferisco di gran lunga le raccomandazioni del progetto MET. Il progetto Valorizza in Italia impostato sulla reputazione aveva cercato di evitare i principali scogli della valutazione imperniata sui test, non era mica male di per sé ma peccava alquanto dal punto di vista metodologico. Troppo piccolo, ingerenze dell'autorità politica nell'impostazione dell'esperienza. Non credo che la misura del valore aggiunto, ossia il confronto tra quanto sanno gli studenti di un professore all'inizio dell'anno e quanto sanno alla fine dell'anno, sia un metodo appropriato per valutare un insegnante. Del resto tutto il mondo scientifico conviene sul fatto che la misura del valore aggiunto di un insegnante di per sé non sia accettabile. Il progetto MET propone una dose di misura del valore aggiunto da utilizzare nel computo della valutazione finale di un insegnante ma questa dose non deve superare il 50% dell'insieme delle misure addizionate per la valutazione globale dell'insegnante.

mardi 15 janvier 2013

Valutazione del sistema scolastico in Italia

Ricevo da Daniele Checchi un'intervista fatta da Giancarlo Cerini e Mariella Spinosi a Paolo Sestito presidente dell'INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, il titolo è assai pomposo ma è così in Italia) nel quale Sestito, un economista che proviene dalla Banca d'Italia tratteggia la filosofia dell'INVALSI e i programmi futuri. La valutazione dell'istruzione e della formazione in Italia è ormai in mano agli economisti. La psicometria in Italia non esiste perché nelle Università Italiane non si fa. Per formarsi occorre andare all'estero, ma ci vuole coraggio ed occorrono finanziamenti per farlo. La valutazione del sistema scolastico e di formazione è indispensabile per pilotare le politiche scolastiche almeno a corta scadenza ma la valutazione va fatta bene e senza ingerenze dell'apparato scolastico che gestisce il sistema o della classe politica. Per questa ragione gli istituti di valutazione devono essere autonomi, indipendenti, situazione della quale non fruisce l'INVALSI legato a doppio filo al Ministero della pubblica Istruzione. Ricopio qui di seguito l'intervista a Sestito: Intervista a Paolo Sestito, Commissario straordinario dell’INVALSI 1) Negli ultimi anni si è intensificata la presenza della valutazione nei vari snodi del sistema educativo italiano: abbiamo le prove Invalsi per la rilevazione degli apprendimenti, un di-verso sistema degli esami di stato, la certificazione delle competenze, le prime ipotesi di “valutazione esterna” delle scuole. La società sembra richiedere più “valutazione”, vuole avere certezze sui risultati prodotti dalla scuola. Come interpreta questa richiesta? È di segno sempre positivo? È questa la strategia prin-cipe per il miglioramento del sistema educativo? L’attenzione alla valutazione è cosa di per sé positiva. Autonomia delle scuole e loro ac-countability – un termine inglese che non va tradotto con rendicontazione, che ha nella no-stra lingua un connotato più circoscritto e comunque di stampo più burocratico, laddove l’accountability rimanda al confronto col resto del sistema dei propri risultati, all’orientamento verso questi della propria azione e alla trasparenza e non autoreferenzia-lità delle scelte compiute – sono universalmente ritenute delle potenti leve di miglioramen-to del sistema educativo. Gli effetti positivi sono però presenti se e solo se entrambe queste leve operino. L’autonomia consente di operare scelte adeguate al contesto effettivo, supe-rando moduli organizzativi e scelte didattiche precostituite e predefinite dall’alto, da se-guire pedissequamente e con modalità burocratiche, quanto mai inopportune in una socie-tà moderna ed in cui la scuola è chiamata a formare cittadini liberi e consapevoli, non pas-sivi “sudditi” appena alfabetizzati. Priva di riferimenti e parametri esterni l’autonomia ri-schierebbe però di scivolare verso l’autoreferenzialità. I singoli studenti, il gruppo classe coi suoi docenti, la comunità della singola scuola che non sappiano quale sia il loro effetti-vo posizionamento rispetto ai target di apprendimento previsti dalla società nel suo com-plesso – target cristallizzati nelle indicazioni curricolari e non più nei vecchi “programmi” scolastici di stampo prescrittivo – rischierebbero di accontentarsi del “quieto vivere”. L’ottenimento con poca fatica del “pezzo di carta” rischierebbe di far premio rispetto all’accrescimento effettivo degli apprendimenti e allo sviluppo delle competenze e della personalità più complessiva degli alunni. Ciò detto, due precisazioni sono doverose. La prima attiene il fatto che col termine valuta-zione si intendono cose spesso molto diverse tra di loro. Credo che vi sia spazio e necessità per molte di esse, ma che esse non vadano sovrapposte e confuse l’una con l’altra. Ritorne-remo su alcune di queste nel corso della discussione e mi limito quindi per il momento solo a sottolineare che la valutazione standardizzata degli apprendimenti degli alunni è impor-tante - ed è a mio avviso anzi importante che in alcuni, pochi momenti, in particolare nelle prove di esame di stato di fine ciclo, essa sia un elemento valutativo rilevante, ancorché non esclusivo, non dominante e non troppo “fiscale”, per i singoli alunni, nei cui confronti possa agire come stimolo al ben fare – ma non esaurisce e non si identifica con la valuta-zione delle scuole, che è un’operazione che richiede sia di tener conto di tutti gli altri fatto-ri che possono influire sui risultati dei loro alunni, sia di considerare la qualità dei processi concretamente posti in essere in una scuola. La seconda precisazione è sul fatto che dare importanza al tema della valutazione ed all’azione dell’INVALSI in questo campo non deve diventare per il decisore politico un a-libi per abbandonare a se stesso il sistema scolastico ed educativo. Vi sono questioni di in-dirizzi “culturali” del sistema educativo, di carenza (e assenza di certezze sulla disponibili-tà) di risorse finanziarie, di rifondazione e rinnovamento della carriera degli insegnanti (poco pagati, sviliti e malamente selezionati) che vanno ben al di là dell’azione dell’INVALSI e più in generale d’un Sistema di valutazione. Sono aspetti su cui l’azione dell’INVALSI può aiutare – perché facilita l’insorgere di equilibri in cui si spende in azio-ni di miglioramento che non intervengano alla cieca (come invece spesso sinora si è finito col fare coi fondi comunitari), perché concretizza ed esemplifica il significato di indirizzi curricolari che altrimenti resterebbero lettera morta, perché più in generale migliora le conoscenze sull’efficacia delle diverse policies immaginate e sperimentate. Sono però temi su cui non credo sia qui utile intrattenersi: benché abbia mie personali convinzioni su al-cuni di essi, sono infatti questioni che esulano i compiti istituzionali dell’INVALSI. 2) Le novità in materia di valutazione riguardano sia la rilevazione standardizzata degli ap-prendimenti, sia la conoscenza di alcuni aspetti del funzionamento della scuola. C’è un nesso tra questi due momenti? Se la qualità della scuola si “misura” prendendo come base di riferimento soprattutto i ri-sultati degli allievi, c’è qualche rischio in questa scelta? Molti temono che si dimentichi, per esempio, il “peso” dei diversi contesti in cui operano le scuole. È possibile? Ci sono altri indicatori di successo di una scuola o di un sistema educativo? Ho già detto che la misurazione degli apprendimenti non si identifica con la valutazione delle scuole. Vi sono tre aspetti di tale non coincidenza che vanno sottolineati. Il primo si ricollega col fatto che le scuole vanno valutate non tanto per dire chi, in termini di risultati ed esiti formativi dei propri alunni, abbia complessivamente fatto meglio o peggio, al fine di premiarlo o “punirlo”, finanziariamente o in termini di riconoscimenti di cui vantarsi pubblicamente. La valutazione delle scuole serve anche e soprattutto ad aiutare le scuole a migliorarsi, rivedendo criticamente il proprio operato. E’ per questo motivo che nella va-lutazione delle scuole è opportuno partire da un processo di autovalutazione e considerare non solo i loro “risultati” – gli esiti formativi ed educativi dei loro alunni - ma anche i “processi” da esse messe in atto, sì da potere per l’appunto riformarli. In ultima analisi una ”buona scuola” è una scuola che riesca a porre in essere un modus operandi, e quindi dei processi organizzativi che, tenuto conto del contesto concreto in cui si opera, consenta-no di conseguire determinati risultati; valutare una scuola significa quindi valutarne i processi messi in atto, che sono importanti, ma proprio per la loro capacità, più o meno immediata, di influire positivamente sui risultati. Il secondo aspetto da sottolineare è che i risultati di una scuola non vanno circoscritti alle misure standardizzate degli apprendimenti effettuate dall’INVALSI. Queste sono uno strumento potente, anche per la loro capacità di concretizzare l’indirizzo culturale cristal-lizzato nelle indicazioni curricolari, che altrimenti rischierebbero di restare lettera morta. Proprio per tale ragione tale strumento va però usato con cautela, evitando di trascurare altre dimensioni degli esiti formativi, anche se non facilmente misurabili in maniera stan-dardizzata. Nel documento che espone la filosofia generale del progetto VALES si sottoli- nea come la qualità d’una scuola vada “pensata e misurata come un costrutto multidimen-sionale, che non può essere arbitrariamente semplificato in una misura unica”1. Sempre in quel progetto si sta perciò provando a considerare misure derivanti dal successivo iter sco-lastico e professionale degli studenti di una data scuola, nonché le dimensioni più afferenti le pratiche di civismo effettivamente presenti in una scuola. Inoltre, al fine di enfatizzare la dimensione dei risultati di una scuola connessa con l’equità, si stanno considerando non solo i risultati medi degli alunni di una data scuola, ma anche l’incidenza e la dimensione del ritardo degli studenti “poveri di conoscenze”, identificati come quelli che non superino una certa soglia minima2. Il terzo aspetto da sottolineare è connesso col fatto che - ove anche si volesse semplicisti-camente vedere quale scuola abbia fatto meglio o peggio e si volessero circoscrivere i risul-tati della scuola alle misure standardizzate degli apprendimenti effettuate dall’INVALSI (le due cose che ho appena detto non doversi fare!) – per attribuire colpe e meriti alle scuo-le occorre considerare tutti i fattori potenzialmente rilevanti e che non dipendono dal loro operato. In altri termini, bisognerebbe ragionare nei termini del cd valore aggiunto. In sintesi, si tratta di considerare non tanto il livello degli apprendimenti, bensì quella parte dello stesso che sia attribuibile all’operato d’una scuola o d’un gruppo di docenti e non, per esempio, alla particolare composizione della popolazione di studenti in questione. E’ proprio per approssimare tale concetto che nella restituzione alle scuole dei risultati nella prove INVALSI da quest’anno si è restituito anche il confronto tra risultati di una data scuola (o classe) e quella del gruppo di scuole (o classi) i cui studenti siano i più simili a quelli della scuola (o classe) in esame in termini di background familiare. 3) Il concetto di “valore aggiunto” sembra garantire alle scuole una valutazione che tenga conto dei fattori legati al contesto socio-culturale in cui agisce la scuola e degli effettivi progressi degli allievi dovuti all’effetto “scuola”. Ci può spiegare, in sintesi, in cosa consiste la misurazione del valore aggiunto? È affida-bile? Esistono esempi in Europa di uso generalizzato di questo tipo di “misura”? Ho appena detto che per approssimare il concetto di valore aggiunto da quest’anno le scuole possono confrontare se stesse non solo con la media del sistema (a livello nazionale e/o regio-nale) ma anche con un gruppo di scuole “simili” quanto a composizione della propria popo-lazione di studenti. La logica di tale confronto è evidente: consento anche a una scuola che operi in un contesto sfavorevole di essere identificata come una scuola con una discreta per-formance (cosa che difficilmente potrebbe accadere guardando i risultati in livello di quella scuola) e obbligo anche una scuola che, dato il contesto e in cui opera e gli studenti con cui ha a che fare, comunque abbia risultati in livello abbastanza elevati a riflettere sul fatto che forse non sta sfruttando a pieno quelle opportunità favorevoli di cui pur beneficia. Tutti so-no quindi invitati a ragionare sul proprio potenziale di miglioramento, senza cullarsi sui 1 Cfr. http://www.invalsi.it/invalsi/ri/vales/documenti/Logiche_gen_progetto_VALeS.pdf 2 Più in generale, le informazioni sulla presenza di “studenti in ritardo” sono state maggiormente poste in evidenza a beneficio di tutte le scuole nel set di indicatori statistici, derivanti dalle misurazioni degli apprendimenti effettuate dall’INVALSI, restituiti alle scuole (cfr. http://www.komedia.it/invalsi/guida_invalsi.html). successi apparenti o lasciarsi deprimere dal fatto che i propri risultati comunque risentono dalle circostanze sfavorevoli in cui operano. Come prima detto, questo ragionamento poi ri-chiede dei passaggi successivi per poter identificare il “che fare”, non essendo sufficiente guardare ai risultati (in termini di livello o di valore aggiunto). Per questo motivo, il valore aggiunto, pur se preferibile al mero confronto nei risultati “grezzi” ed in livello, non è in nessun paese europeo adoperato come il metro unico nel governo del sistema scolastico. Prima ho però usato il termine approssimare volutamente. Quello prima descritto è un con-fronto basato esclusivamente su dati di tipo sezionale: i livelli medi degli apprendimenti del-la singola scuola (o classe) in un dato momento (un dato anno e un dato grado scolastico, ad esempio la quinta primaria dell’anno scolastico 2011-12) vengono posti a confronto con i li-velli di scuole “simili”. Non si va a vedere cosa accada all’evoluzione nel tempo degli ap-prendimenti di un certo gruppo di studenti, tenendo conto del fatto che, anche a parità di background familiare, ci sono singoli studenti più e meno dotati e motivati. Per fare queste cose occorre guardare all’evoluzione nel tempo degli apprendimenti: a quanto sanno oggi fare determinati studenti tenuto conto di quanto già sapevano fare in passato. E’ questa un’operazione che richiede di poter collegare – pur se sempre su base anonima – i risultati di un dato studente in un anno con quelli dello stesso studente in anni successivi. Lo si sta sperimentando a partire da quest’anno con riferimento al passaggio dalla quinta primaria (anno scolastico 2010-11) alla prima media inferiore (anno scolastico 2011-12): la riuscita dell’operazione dipende dalla qualità dell’anagrafe studenti che fornirà le chiavi (anonime) di collegamento; dovremo verificare di riuscire ad ottenere non solo una quota di collega-menti riusciti complessivamente elevata, ma anche che tale quota non vari sistematicamente tra regioni e scuole caratterizzate da diverse condizioni di base. Nelle sperimentazioni già fatte col concetto di valore aggiunto - sperimentazioni che, pur re-stando in un’ottica sezionale, hanno cercato di usare tecniche statistiche multivariate per raggiungere lo steso scopo – si è inoltre evidenziato come le graduatorie tra scuole basate sul valore aggiunto siano spesso poco robuste. Esse cambiano facilmente tra un anno scolastico e l’altro o a seconda dell’ambito disciplinare considerato. In parte è plausibile che ciò possa dipendere dal fatto che in assenza di dati longitudinali veri e propri le approssimazioni siano poco soddisfacenti; le sperimentazioni fatte su più piccola scala adoperando informazioni propriamente di tipo longitudinale sembrano però anch’esse denotare una certa instabilità e imprecisione delle graduatorie. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che il livello scuola, per quanto intrinsecamente rilevante e comunque insopprimibile come possibile driver di un’azione di rinnovamento e miglioramento, non è sempre quello più importante: vi è in ef-fetti una grande eterogeneità (nei risultati) anche tra classi della stessa scuola. Inoltre, parte dell’instabilità – nel tempo o tra ambiti disciplinari – potrebbe genuinamente dipendere dal-la presenza di fattori che sono mutevoli (ad esempio un mutamento nella composizione e nel-la motivazione dei docenti di una scuola) e di cui non si è tenuto conto in maniera adeguata. Da tutto ciò ricavo perciò due conclusioni. Innanzitutto, sul concetto di valore aggiunto è ne-cessario continuare a lavorare, da un punto di vista analitico, prima di individuare un indi-catore di facile ed immediato utilizzo (ancorché assieme ad altri indicatori e all’interno di più complessivi processi) a fini di governo del sistema. In secondo luogo, sia pure come con-clusione provvisoria, pare plausibile ritenere che identificare le scuole appartenenti a ma-crocategorie estreme – scuole di eccellenza e scuole con una performance molto insoddisfa- cente, da enucleare da una più grande massa di scuole con risultati meno marcatamente o-rientati in un senso o nell’altro - sia un risultato più significativo e robusto rispetto alla pre-tesa di creare delle graduatorie “fini” che ordinino tutte le singole scuole. 4) È cambiato in questi anni l’atteggiamento degli insegnanti nei confronti della sommini-strazione delle prove Invalsi? Si notano delle differenze di comportamento tra i vari livelli di scuola ed i diversi territori? L’Invalsi cosa si aspetta dalle scuole, al di là della scontata “correttezza” nella gestione delle prove? Intendiamo, in termini di ricerca e di utilizzo delle informazioni ricavabili dall’andamento delle prove… L’INVALSI da quest’anno sta intensificando i suoi sforzi nel contrastare i comportamenti scorretti in sede di conduzione delle prove. Intervenendo a valle dell’effettuazione delle prove, abbiamo non solo stimato l’entità di questi comportamenti scorretti – tramite una procedura statistica che identifica, a livello di singola classe, il cd cheating – ma anche iniziato a restituire alle scuole dati al netto di questi effetti. Vogliamo evitare di dire a una scuola che stava facen-do bene laddove invece, più probabilmente, i comportamenti tenuti in sede di svolgimento del-le prove erano poco corretti. L’entità del cheating in quanto tale da quest’anno viene inoltre segnalata al dirigente scolastico – che così è sollecitato a prevenire comportamenti poco cor-retti – e al presidente del consiglio d’istituto – così da sollecitare l’attenzione al problema an-che da parte della componente genitori. Nelle prove che verranno svolte nell’anno scolastico ora in corso, verranno inoltre rafforzati i controlli - verrà meglio monitorata la qualità del la-voro fatto dalla rete degli osservatori in classe adoperati nelle cd scuole campione e verrà in-trodotta un secondo livello di controlli ex post – e si introdurranno meccanismi per rendere più difficili forme di indebita “collaborazione” in sede di conduzione delle prove. Vorremmo più in generale fare del problema della onestà in sede di conduzione delle prove una grande questione nazionale e non qualcosa di cui parlare a mezza bocca. Del resto, l’onestà in sede di conduzione delle prove è uno dei primi veri insegnamenti civici che le scuole dovrebbero e po-trebbero trasmettere ai propri studenti. Rafforzando la vigilanza e operando su una base esclusivamente campionaria, l’INVALSI ben potrebbe disporre di rilevazioni di qualità sulla cui base analizzare gli andamenti del sistema nel suo complesso: è del resto quello che già si fa con le rilevazioni internazionali (OCSE-PISA, PIRLS e TIMSS). Le rilevazioni universali condotte dall’INVALSI hanno però la fun-zione di fornire a tutte le scuole informazioni utili a ragionare su se stesse. La valutazione del-le scuole di cui prima si è parlato si basa, anche se non in via univoca ed esclusiva, su quei da-ti. Anche al di là dei processi di valutazione delle scuole, le rilevazioni INVALSI forniscono poi a tutte le singole scuole un utile strumento per riflettere sulla qualità della propria attività didattica; ma questo potenziale è sfruttabile solo con dati veri e non truccati. E’ su questo a-spetto della collaborazione tra le scuole e l’INVALSI, oltre che su quello attinente gli aspetti per così dire etici insiti nella correttezza in sede di conduzione delle prove, che intendiamo nei prossimi anni ulteriormente investire. Già da quest’anno, si sono restituiti i risultati alle scuole non solo in termini di risultati com-plessivi, ma anche evidenziando le differenze esistenti tra i diversi ambiti tematici e i diversi processi cognitivi interessati da una singola prova disciplinare. L’obiettivo è aiutare i docenti delle singole classi a identificare punti di forza e di debolezza - ad esempio evidenziando che un problema (o una potenzialità) è più nella comprensione dei testi di un tipo o di un altro, più negli aspetti geometrici che nelle capacità di argomentare – al fine di meglio riprogrammare la propria attività didattica. Per meglio consentire questo uso delle rilevazioni INVALSI da parte del mondo della scuola, nei prossimi anni abbiamo messo in programma due ulteriori innovazioni. Gradualmente, queste indicazioni relative ai singoli aspetti contenutistici interes-sati dalle prove verranno forniti non più solo in termini comparativi col resto del sistema ma anche in termini “assoluti”: questo sarà gradualmente possibile “ancorando” nel tempo le ri-levazioni dei singoli anni. L’INVALSI, a cui non compete dare indicazioni di natura didattica, intende inoltre documentare le azioni di riflessione didattica – di vera e propria ricerca didat-tica – messe in atto nelle scuole (spesso in collaborazione col mondo dell’Università) a valle della lettura delle prove INVALSI. La seconda innovazione è nei tempi con cui i risultati delle rilevazioni INVALSI verranno restituiti alle singole scuole: già quest’anno si son fatti passi in avanti, perché un set ben più ricco del solito di informazioni è stato restituito entro il 21 di-cembre; dal prossimo anno, il programma è però di restituire le informazioni a tutte le scuole coinvolte entro il 1° settembre, sì da rendere utilizzabili i dati quando nelle scuole più concre-tamente si riflette sulla programmazione didattica. Lo sforzo sarà notevole, ma confido nella capacità della piccola compagine di ricercatori, tecnici e collaboratori dell’INVALSI di farce-la! 5) Veniamo ad uno dei temi più controversi: l’utilizzo “pubblico” dei dati Invalsi a livello di scuola. Autorevoli ricerche, anche internazionali, scoraggiano la pubblicazione dei dati degli apprendimenti, perché produrrebbero effetti di ulteriore polarizzazione tra scuole (le migliori continuerebbero a migliorare, le peggiori potrebbero peggiorare), proprio in virtù delle scelte dei genitori più “avveduti”. È stato valutato questo fenomeno? L’Invalsi mantiene l’impegno (attuale) a non rendere pubblici i risultati delle singole scuole e classi? L’INVALSI conferma l’impegno a non rendere pubblici i risultati delle singole scuole e classi. Aggiungo che personalmente lascerei l’incarico di responsabile dell’INVALSI ove, fosse anche per via di un esplicito obbligo di legge, una tale pubblicizzazione automatica, obbligatoria e di massa dovesse venire prevista. Ciò che abbiamo previsto è che, per le scuole che vogliano ren-dere pubblici i propri risultati, ciò sia possibile farlo adoperando un format predefinito e il canale “Scuola in chiaro” predisposto dal MIUR. L’obiettivo è quello di rendere pubblici, sempre solo per chi voglia farlo, dati in un formato che ne faciliti la leggibilità e che non indu-ca forme di “pubblicità ingannevole”. Il format enfatizza perciò non solo i risultati di scuola in comparazione col resto del sistema (a livello nazionale o regionale), ma anche la compara-zione con scuole “simili” – nel senso prima detto di scuole con una simile composizione della popolazione studentesca, sì da approssimare il concetto di valore aggiunto – e, ove possibile, il confronto tra risultati degli apprendimenti nelle prime e nelle ultime classi sottoposte alle prove – ad esempio, il confronto tra risultati nella seconda e nella quinta primaria. L’obiettivo è proprio quello di innescare sì meccanismi emulativi e competitivi, ma evitando i fenomeni di polarizzazione – o, ancora peggio, la diffusione di informazioni distorsive, quali quelle che era possibile diffondere negli anni passati, quando le scuole venivamo in possesso (e spesso diffon- devano una selezione da loro scelta) di dati non corretti per il cheating – richiamati nella do-manda. Questi principi li terremo in conto anche quando si tratterà di definire il format minimo dei rapporti di autovalutazione che le scuole, tutte le scuole e non più solo quelle partecipanti a questa o quella sperimentazione, dovranno rendere pubblici ai sensi del nuovo regolamento sul sistema di valutazione. Personalmente, purché si segua un format atto ad evitare la diffu-sione di informazioni parziali e/o distorsive ed ingannevoli, non ho nulla in contrario a che i dati vengano resi pubblici; la tendenza alla polarizzazione credo infatti possa e debba esser contrastata con altri mezzi (ad esempio impedendo alle scuole di “scegliersi gli studenti” e in-tervenendo preventivamente nelle scuole che abbiano una performance insoddisfacente). Per coerenza con l’dea che tale pubblicazione non debba venire imposta come obbligo – tanto più in un sistema di valutazione che ancora non è matruroi e completo, in cui si rischierebbe di at-tribuire un peso eccessivo alle rilevazioni sugli apprendimenti svolte dall’INVALSI - sarei contrario a far indirettamente derivare un simile obbligo dalla previsione di quel rapporto di autovalutazione che tutte le scuole saranno in futuro, ai sensi del regolamento sul sistema di valutazione, chiamate a compilare. 6) In alcuni progetti sperimentali, come VSQ e VALES, i dati delle rilevazioni Invalsi con-corrono a “misurare” la qualità complessiva di una scuola. Questa finalità, o altre simili, non potrebbero inficiare la serenità delle prove? Se dai dati positivi sull’apprendimento misurato dai test si evince una “buona” scuola, il sistema-scuola cercherà in ogni modo di ottenere quei risultati, con le buone (teaching to the test) o con le cattive (cheating)? L’Invalsi conosce questi effetti collaterali? Come li giudica? Ho già parlato del contrasto del cheating. Questo, così come più in generale il rischio di feno-meni di teaching to the test, dipendono dalla percezione di un uso immediato, diretto ed esclu-sivo delle prove per assegnare premi e punizioni alle singole scuole e/o ai singoli docenti. Le azioni di contrasto richiedono interventi specifici, di cui ho prima parlato e, più in generale, che le diverse componenti del sistema siano ciascuna in stato di allerta per contrastare la ten-tazione a scivolare in comportamenti scorretti o comunque devianti, in una logica di collabo-razione e “controllo reciproco”. Nel contrasto rientrano anche accorgimenti insiti nelle modalità di costruzione e di conduzio-ne delle prove: la prima prevenzione del teaching to the test è in realtà nel continuo migliora-mento della qualità intrinseca delle prove INVALSI che non hanno la natura di test nozioni-stici a cui ci si possa “preparare” mnemonicamente. Da questo punto di vista, vorrei ricordare che le prove INVALSI già sono preferbili alla gran parte dei test di uso corrente, ad esempio molte delle prove d’accesso al sistema universitario, la maggior parte delle normali prove di profitto quotidianamente definite nelle scuole o dei quesiti adoperati nella cd terza prova usa-ta nell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo d’istruzione. L’INVALSI cerca però sempre di migliorare la qualità delle proprie prove e sta ad esempio avviando prime sperimentazioni, per il momento su base campionaria, di prove da condurre su computer, un sistema che do-vrebbe consentire di meglio adattare le prove ai singoli studenti, contrastando il cheating (con prove differenziate nella stessa classe), arricchendo la precisione delle stime (con prove che si adattino al singolo studente) e con migliori informazioni sulle risposte agli stimoli provenienti dai singoli quesiti. Il contrasto del cheating e del teaching to the test è però soprattutto legato ad una maggiore chiarezza sugli usi delle prove: le scuole e i docenti devono percepire che le prove sono uno strumento a loro disposizione per riflettere sulla programmazione didattica (vedi risposta numero 4), che la valutazione delle scuole inizia ma non si esaurisce nella considerazione delle prove (vedi risposte numero 1 e 2), che comunque, nel vagliare tali risultati, si ragiona in ter-mini di valore aggiunto (vedi risposta numero 3). Quelli che ho ora richiamato sono i valori e i principi a cui l’INVALSI si attiene e che, pur in un quadro di risorse e mezzi limitati, cerca di far progredire con le iniziative che ho descritto. Senz’altro però aiuterebbe a rafforzare queste percezioni se queste cose non venissero dette e sancite solo dall’INVALSI. Più utilmente esse potrebbero ad esempio far parte dell’annuncio di un programma che chiarisca come le scuole in condizioni critiche – da individuare anche e soprattutto guardando alla presenza di risultati insoddisfacenti dei loro alunni – possano be-neficiare di maggiori attenzioni, risorse e sostegni dall’esterno. 7) La comparazione e il confronto con dati più ampi (di altre scuole, di un territorio, ecc.) sono certamente criteri fondamentali per aiutare la scuola a “posizionarsi” e a capire il suo “status”. Ma il benchmarking potrebbe portare con sé anche una discutibile competi-zione tra scuole, non sempre virtuosa. Non sarebbe più opportuno aiutare le scuole a confrontarsi con se stesse, a vedere gli an-damenti nel corso degli anni, a cogliere i fattori di successo e insuccesso (benchlearning)? Tra valutazione dei propri andamenti nel tempo e valutazione dei propri andamenti in com-parazione con il resto del sistema (e ancora meglio con un gruppo di “propri simili”, per ap-prossimare il concetto di valore aggiunto) non vedo grandi contraddizioni. L’una e l’altra do-vrebbero esser finalizzate a perseguire, nel tempo, il proprio miglioramento, guardando ai processi da riformare (e monitorando il successo nelle azioni di riforma intraprese). Da un punto di vista strettamente tecnico, le misurazioni standardizzate che oggi già sono di-sponibili con le prove INVALSI consentono alla singola scuola di capire non solo come, in un momento dato, si collochi rispetto al resto del sistema, ma anche come tale collocazione “rela-tiva” stia evolvendo nel corso del tempo. Nei prossimi anni, un giudizio assoluto sarà anche reso possibile dall’operazione di ancoraggio delle prove condotte nei diversi anni di cui prima parlavo (l’ancoraggio lo vorremmo anche ottenere con riferimento alle rilevazioni internazio-nali). L’idea di un “fai da te” - con misure degli apprendimenti, o di altra natura, definite dal-la singola scuola ed aventi la caratteristica della incomparabilità con il resto del sistema e del-la comparabilità nel tempo (al limite perché la stessa prova viene ripetuta anno dopo anno a più generazioni di studenti) – devo dire che mi lascia invece piuttosto perplesso. Forti sareb-bero sia i rischi di autoreferenzialità (ognuno fa la prova che più gli aggrada, quanto a conte-nuti culturali, ambiti coperti etc) che di teaching to the test (insegno a superare i test dell’anno prima e il gioco è fatto!). Vi è spazio per prove definite a livello di scuola aventi una logica si-mile a quelle definite dall’INVALSI (che è ben pronto, pur nella limitatezza di risorse che lo attanaglia, a fornire in proposito il proprio supporto metodologico). Ma lo spazio lo vedrei più per esplorare ambiti tematici e disciplinari specialistici, di tipo non universale, o per focaliz-zarsi su aree critiche o di eccellenza che interessano una singola scuola. 8) L’autovalutazione sembra il nuovo cavallo di battaglia del sistema di valutazione? Molte scuole in questi anni ci hanno “provato”, con alterne fortune. Ora scende in campo diret-tamente l’Invalsi proponendo indicatori, parametri di riferimento, dati da utilizzare, crite-ri per la stesura dei report di autovalutazione. Sembra un approccio molto direttivo. Quali le ragioni di questa scelta? Nella logica che ho prima descritto (vedi soprattutto risposte numeri 1 e 2), l’autovalutazione è essenziale, perché deve consentire di andare oltre la caratterizzazione della performance di una scuola come buona o cattiva – in termini di livelli degli apprendimenti o anche di valore aggiunto, positivo o negativo, a tale scuola in qualche modo addebitabile. I dati derivanti dalle prove INVALSI e alcuni altri dati disponibili centralmente ai sistemi informativi del MIUR vengono perciò offerti a tutte le scuole come stimolo alla discussione interna, ma con l’intenzione che essi siano uno stimolo alla riflessione e non un giudizio precostituito. Non si tratta infatti tanto di dare premi o punizioni, quanto di definire il che fare per migliorare: serve individuare quali processi revisionare e serve individuare il come agire. Serve perciò andare oltre l’analisi dei risultati (livelli o valore aggiunto che siano) e serve sfruttare la soft information disponibile localmente. Serve soprattutto passare dai giudizi all’azione e questo significa formare una coalizione di agenti che in loco operino per il cambiamento. Queste cose possono essere sollecitate dall’esterno – dalla disponibilità di confronti sulla base di misure standardizzate, dall’intervento di un team di valutatori esterni, con una funzione ad un tempo ispettiva e consulenziale – ma poi richiedono che qualcuno all’interno della scuola ci creda e si attivi. L’enfasi sull’autovalutazione non è quindi alternativa alla valutazione esterna o al ben-chamrking. L’autovalutazione in questione è innanzitutto un processo, che dovrebbe operare nel continuo (un ciclo di programmazione, valutazione e revisione della programmazione). Periodicamente tale tensione all’autovalutazione dovrà sedimentarsi in un rapporto; questo dovrebbe però es-ser fatto evitando di trasformarlo in un adempimento burocratico, di mera risposta ad un questionario inviato dall’INVALSI. In quanto processo l’autovalutazione è libera e non prescrittiva quasi per definizione. E’ però essenziale che anche in quanto processo, libero, l’autovalutazione non sfugga le “domande dif-ficili”: si vuole perciò che le scuole integrino le informazioni sulle prove INVALSI o di altro tipo disponibili centralmente a cura dei sistemi informativi del MIUR, anche magari conte-stando i facili giudizi che potrebbero in prima battuta desumersi dall’osservazione di quei da-ti, ma trattando esaustivamente tutta un’ampia serie di fenomeni. Al tempo stesso, a questa esaustività di trattazione, si vuole che si affianchi una capacità di selezione dei principali a-spetti su cui intervenire a fini di miglioramento. E’ questo l’obiettivo che la predisposizione di direttrici e protocolli valutativi da parte di IN-VALSI si pone. Il progetto VALES serve anche a testare ed affinare queste direttrici e questi protocolli: se devo essere sincero non credo però che le direttrici e i protocolli che definiremo tra un anno, per il costituendo sistema di valutazione, saranno gli stessi appena abbozzati per VALES, che sono stati definiti più in fretta e comunque con l’idea di testarli e non di imporli come la soluzione definitiva. In particolare all’interno di VALES si dovrà e potrà testare il nesso tra autovalutazione e valutazione esterna, che sarà sempre presente per le scuole parte-cipanti a VALES, laddove, a regime e con riferimento alla totalità delle scuole, la valutazione esterna interverrà invece solo in via eventuale (e con priorità da darsi alle scuole in condizioni maggiormente critiche). 9. Il Regolamento sul sistema di valutazione propone un percorso concettuale che tiene in-sieme autovalutazione, valutazione esterna, miglioramento, rendicontazione sociale. Ha registrato consenso attorno a questa ipotesi? Quale è la “vision” dell’Invalsi sulla va-lutazione di sistema? A proposito, che succede del testo di Regolamento, dopo il cambio di Governo? La risposta più corretta è che non so bene cosa avverrà: non spetta all’INVALSI seguire l’iter del Regolamento e, anche personalmente, non sono sufficientemente esperto degli aspetti giu-ridici legati a tale iter. Ritengo però quella bozza di Regolamento un buon compromesso tra paladini dell’autovalutazione e della valutazione esterna, tra sostenitori della necessità di va-lutare gli esiti (e gli apprendimenti) e sostenitori del fatto che le scuole possano render conto dei processi posti in essere ma giammai dei risultati raggiunti dai loro alunni. Quel compro-messo può consentire di passare dalle diatribe ideologiche, durate 15 anni e più, ad una più fattiva fase di costruzione d’un sistema di valutazione. Reputo quindi come una iattura l’eventuale venir meno del Regolamento, per i rischi che ne deriverebbero di ricadere in un dibattito fortemente ideologico. Lo dico sebbene il Regolamento dia all’INVALSI funzioni ma non risorse e quindi dalla sua approvazione discendano domande e sollecitazioni che per l’INVALSI sarebbero molto impegnative! Quanto alla filosofia generale con cui l’INVALSI interpreta il proprio ruolo ai sensi del Rego-lamento credo di averla già espressa in precedenza (in particolare risposte numeri 1 e 2). Non a caso, nella revisione dello Statuto dell’INVALSI che mi appresto a proporre al MIUR in quanto Ministero vigilante, ho immaginato di raggruppare le attività dell’Istituto in quattro aree: • Attività di tipo psicometrico finalizzate alla costruzione e conduzione delle rilevazioni nazionali sugli apprendimenti, da raccordare con le rilevazioni internazionali, e al supporto diffuso al sistema nella costruzione di prove con base psicometrica e nella let-tura dei loro risultati anche a fini di riflessione sull’attività didattica • Attività di tipo statistico miranti a sistematizzare la costruzione e l’uso di indicatori statistici a partire dai risultati delle rilevazioni (nazionali e internazionali) sugli ap-prendimenti nonché dalle altre informazioni, statistiche e amministrative, sul sistema scolastico e sulle singole scuole, ivi inclusa l’identificazione delle condizioni di criticità. • Attività di coordinamento funzionale del costituendo sistema nazionale di valutazione, con specifico riguardo tanto al sostegno alle scuole nelle attività di autovalutazione, quanto alla formazione e all’indirizzo da fornire ai nuclei di valutazione esterna previ-sti dal costituendo sistema nazionale di valutazione (nuclei di valutazione esterna che non sono una longa manus dell’INVALSI ed i cui componenti non sono “dipendenti” aggiunti dell’INVALSI). • Attività di studio e ricerca sulle determinanti degli apprendimenti e sul contributo del sistema e delle politiche scolastiche, nonché sulla valutazione di tipo contro-fattuale delle eventuali innovazioni didattiche e organizzative predisposte all’interno del siste-ma scolastico. Sia nel suo complesso che con riferimento alle singole linee di attività ora citate sarà impor-tante per l’INVALSI operare all’interno del costituendo sistema nazionale di valutazione col massimo della trasparenza e in una logica di dialogo. Si tratta di un approccio che tradizio-nalmente ha già contraddistinto l’INVALSI in questi ultimi anni, ad esempio in tutte le fasi di costruzione delle rilevazioni sugli apprendimenti, un processo che volutamente svolgiamo ri-fuggendo da accelerazioni improvvise che pur ogni tanto ci verrebbero richieste. Ad esempio, con riferimento all’introduzione di prove standardizzate nella quinta superiore, stiamo par-tendo quest’anno ma senza prevedere da subito una prova universale e tanto meno il suo col-legamento con gli esami di stato: nei prossimi mesi renderemo pubblica una prima bozza di un Quadro di riferimento (per chiarire cosa e perché le prove debbano misurare); in maggio svolgeremo in un campione di scuole delle prime prove la cui funzione è testare gli strumenti (ma renderemo possibile alle scuole che lo desiderino, e con impegno a non utilizzare a fini di valutazione delle scuole i risultati comunque registrati, di partecipare anche all’operazione); solo il prossimo anno tali prove saranno introdotte universalmente; solo tra due anni, in coin-cidenza con l’arrivo in quinta della prima coorte di studenti interessati dalla recente riforma del secondo ciclo d’istruzione, ne renderemo possibile un eventuale utilizzo all’interno dell’esame di stato (che non spetta a noi rivedere nella sua architettura, e che però andrebbe a nostro avviso riformato in quella data e nel suo complesso, non già semplicemente assomman-dovi un pezzo aggiuntivo) e da parte del mondo universitario a fini di selezione e di orienta-mento. Quel che qui mi preme sottolineare è che si tratta di un percorso graduale e le cui pri-me tappe abbiamo annunciate a tutte le scuole già lo scorso ottobre. 10. La valutazione di sistema chiama in causa anche l’apprezzamento delle professionalità, ma in questo campo è d’obbligo l’estrema cautela. Ci sono forse alcune prospettive percorribili per la valutazione della dirigenza scolastica (che è prevista dalle norme, da oltre dieci anni), anche in relazione al progetto Vales (300 scuole) e ai dirigenti neo-assunti (800 unità). È così? Cosa sta emergendo in proposito? E per gli insegnanti? Finora abbiamo parlato di valutazione degli apprendimenti e di valutazione delle scuole. La valutazione del personale, per molti aspetti un taboo nel contesto italiano, è però implicita-mente richiamata da quella delle scuole, in primo luogo per quanto riguarda la dirigenza sco-lastica. Valutare i dirigenti, se non vuole essere un esercizio meramente burocratico o una fin-zione a cui assolvere a fini contrattuali, significa valutarne il contributo alla performance della scuola loro affidata: su tale tema, alcune cose si potranno sperimentare all’interno di VALES e dei processi collegati. Più complesso, e di là da venire (a meno di non ipotizzare fughe in a-vanti, che sarebbero però poco solide metodologicamente, ancor prima che politicamente), è il discorso relativo alla valutazione dei docenti, su cui pure in passato alcune sperimentazioni (mi riferisco a Valorizza) hanno verificato la plausibilità dell’uso di strumenti reputazionali all’interno della singola comunità scolastica. Credo quindi sia necessario distinguere i due li-velli. Per la dirigenza, il percorso immaginato in VALES3 passa per tre fasi: la diagnosi dei pro-blemi della scuola; l’individuazione di un piano di miglioramento; la definizione, in connes-sione a quel piano e quella diagnosi, di specifici obiettivi per il singolo dirigente scolastico, da porre alla base del contratto d’incarico a quest’ultimo e quindi della sua successiva valutazio-ne da parte dell’USR. Le cose, ancora in buona misura da chiarire – ma quello di chiarire il come operare è del resto per definizione lo scopo di un progetto sperimentale – sono princi-palmente due: la diagnosi dei problemi della scuola già potrebbe contenere elementi valutativi sul pregresso operato del dirigente scolastico, specialmente ove si tenga presente che, per le scuole VALES, tale diagnosi sarà validata e vagliata anche dal passaggio di un team valutativo esterno; la successiva valutazione del raggiungimento degli obiettivi specifici concordati dall’USR e dal singolo dirigente scolastico dovrebbe evitare di ridursi ad un esercizio mera-mente burocratico, di verifica dell’effettuazione delle azioni esplicitamente concordate, do-vendosi anche tener conto dell’effettiva performance complessiva della scuola. E’ infatti op-portuno evitare che gli obiettivi contrattualmente esplicitati, che devono sì essere realistici ma anche ambiziosi, siano poco incisivi e prevenire un orientamento al mero adempimento, anzi-ché ai risultati, nell’attività dei dirigenti scolastici. In tutta questa operazione, la funzione dell’INVALSI è di supporto metodologico, non solo nella diagnosi dei problemi della scuola – la prima fase – ma anche nella definizione di obiettivi da concordare tra USR e singolo diri-gente scolastico e loro successivo monitoraggio. Proprio perché non è nostro il difficile compi-to di “valutare” i singoli dirigenti scolastici (o anche, a monte, le singole scuole), come IN-VALSI cercheremo di offrire il massimo del supporto metodologico tramite la definizione di griglie e protocolli operativi, ciò anche a fini di garanzia di unicità, sul territorio nazionale, dei processi così avviati. In tema di valutazione dei docenti siamo invece molto indietro. A me pare che il dibattito sia ancora ad uno stadio preliminare, con contrapposizione di posizioni spesso estreme ed infanti-li – c’è chi sostiene la assoluta insindacabilità dell’operato dei singoli docenti sulla base del principio costituzionale della libertà d’insegnamento e chi immagina una sorta di cottimo dif-fuso da governare sulla base degli apprendimenti degli alunni affidati a un dato docente. L’insindacabilità francamente mi sembra un principio assurdo: il singolo docente dovrebbe operare in un team, nella singola classe e nella singola scuola, e rispettare la sua libertà d’iniziativa personale (che dovrebbe esser anzi favorita e stimolata, a fini di prevenzione di qualsivoglia forma di omologazione culturale di massa!), non dovrebbe significare privarlo di un feedback da parte della comunità dei pari e di indicazioni da parte dei colleghi con cui deve cooperare e dei superiori gerarchici che di quella cooperazione dovrebbero essere i responsa-bili. Non usare elementi di valutazione dei comportamenti effettivi e dell’opera svolta dai sin-goli, per l’attribuzione di particolari incarichi o quantomeno per selezionare l’accesso in cat-tedra, mi parrebbe poi suicida: ribadire il valore della selezione tramite concorso, e prevedere un percorso formativo adeguato, sono senz’altro dei passi in avanti rispetto alla prassi ultra- 3 Ma anche in sede di formazione dei dirigenti scolastici di nuova nomina,che anche sono stati chiamati dal MIUR a svolgere un esercizio di autovalutazione della loro scuola finalizzata all’individuazione di un possibile piano di miglio-ramento, la principale differenza rispetto a VALES essendo nella mancata presenza di una visita valutativa esterna. decennale che ha governato l’accesso in cattedra sulla base di un mero principio d’anzianità; ma mi chiedo perché rinunciare ad impedire la conferma in ruolo di chi, sulla base dei com-portamenti effettivamente agiti, dimostri di non avere adeguate attitudini. Proprio alla luce di queste considerazioni mi pare però altrettanto irragionevole creare un sistema di valutazione dei singoli docenti con finalità di mera differenziazione delle retribuzioni individuali e senza collegamenti con le due questioni ora ricordate, quella del governo dell’accesso in cattedra e quella del sostegno allo spirito di team ed alla cooperazione all’interno di ciascuna scuola. E’ solo dopo aver chiarito queste questioni di finalità di qualsivoglia valutazione dei singoli docenti – temi che per molti versi esulano dai compiti istituzionali dell’INVALSI - che si può affrontare il problema del come valutare – aspetto su cui invece INVALSI può fornire un con-tributo. Su tali questioni, mi limito perciò solo a due brevi flashes. Come INVALSI stiamo sperimentando, all’interno del progetto Valutazione e Miglioramento, metodi di “osservazione in classe” che, sperabilmente, potrebbero fornire una guida metodologica per fornire un feed-back tra pari. La seconda considerazione è che le rilevazioni standardizzate sugli apprendi-menti condotte dall’INVALSI non potranno mai costituire il metro unico ed univoco di valu-tazione del contributo dei singoli insegnanti. Questo lo dico indipendentemente dal fatto che oggi non esiste collegamento alcuno tra risultati degli alunni e identità dei loro docenti (o alla necessità comunque di ragionare in termini di valore aggiunto e non di livelli degli apprendi-menti). Il problema è dato dal focus troppo limitato che tali rilevazioni comunque hanno ri-spetto al complesso di cose che i docenti sono chiamati a stimolare nei loro alunni. Vi è quindi senz’altro necessità di combinare informazioni di fonte e natura diverse, incluse quelle del cd metodo reputazionale sperimentato in Valorizza. La discussione sugli strumenti però, come ho prima detto, dovrebbe seguire quella sulle finalità della valutazione, ricollegandosi alla più generale questione della organizzazione della carriera dei docenti in Italia, una carriera oggi caratterizzata da paghe insufficienti, mortificanti prospettive di sviluppo professionale (e re-tributivo) e assenza di efficaci meccanismi di selezione all’ingresso. (Intervista a cura di Giancarlo Cerini e Mariella Spinosi)

lundi 14 janvier 2013

Formazione professionale in Italia

Da decenni la formazione professionale in Italia è monca, zoppicante, carente.Non si riesce né a correggerne i difetti né a completarla. Manca per esempio la formazione duale, ossia la formazione in alternanza tra scuola e lavoro che è una delle varianti efficaci per frenare la dispersione scolastica ( basterebbe quest'argomento per mobilitare almeno coloro che credono ancora nelle istituzioni scolastiche) e per ridurre la disoccupazione giovanile. Tutto ciò è comprovato da decine di indagini, di sperimentazioni su vasta scala, ma in Italia nulla di tutto ciò. Il sistema scolastico si è accaparrato l'istruzione e la formazione professionale, le università monopolizzano la formazione terziaria.Eppure tanti anni fa non era affatto così. Ho visitato negli anni Cinquanta la scuola per apprendisti dell'Olivetti a Ivrea, un gioiello ormai scomparso. Ci sono ancora per fortuna qua e là reliquie di un passato glorioso, istituti che hanno preservato livelli di qualità eccelsi, ma l'insieme del sistema sembra proprio un maglione con tanti buchi. Molte forze , molti interessi locali congiurano per impedire qualsiasi rattoppo, qualsiasi modifica, nonostante i numerosi segnali d'allarme, gli avvertimenti. Molti oggigiorno ritengono che si debba fare qualcosa ma quando si chiede di precisare questo "qualcosa" nascono gli intoppi. Non si va oltre le dichiarazioni generiche. Ecco uno degli ultimi segnali d'allarme. Viene da un'indagine del CENSIS uno dei pochi validi centri di ricerca sull'evoluzione della società italiana, pubblicato dalla rivista "La tecnica della scuola" il 13 gennaio scorso. Il titolo dell'articolo era di per sé eloquente: "Il j'accuse delle aziende artigiane alla scuola" : Indagine del Censis su un campione di 450 imprese con meno di 50 addetti: per il 39,5%, la preparazione tecnica si rivela inadeguata alle esigenze. E tre aziende su quattro ritengono il sistema formativo italiano inadatto ai loro bisogni. Tutti d’accordo, invece, sul rilancio dell'apprendistato. I brutti segnali che giungono dalle aziende artigiane non riguardano soltanto la bassa produttività e l’alto numero di fallimenti. Ora si scopre anche che per quasi la metà delle aziende italiane la preparazione tecnica dei giovani non sarebbe adeguata alle loro necessità. E per tre su quattro la colpa sarebbe del sistema d’istruzione e formativo. Con il risultato che le aziende artigiane preferiscono assumere over 30. A rivelarlo è un'indagine svolta dal Censis per conto della Cna su un campione di 450 imprese con meno di 50 addetti. Ebbene, solo il 32% degli intervistati dichiara l'intenzione di ricercare giovani con meno di 30 anni. E se la maggioranza considera la variabile anagrafica ininfluente vi è invece un 15,3% che esprime una chiara preferenza per gli over 30. Il punto dolente è la preparazione tecnica, che per il 39,5% non sempre si rivela adeguata alle esigenze. È davvero significativo anche il dato che più di 3 imprese su 4, tra quelle che negli ultimi cinque anni hanno ricercato profili da inserire in azienda, sono andate incontro a difficoltà. Per oltre il 42% delle aziende i profili incontrati non possiedono addirittura competenze in linea con quelle richieste. Ben tre aziende su quattro ritengono il sistema formativo italiano inadatto ai bisogni delle imprese. Una carenza rilevata soprattutto dalle imprese più strutturate: infatti, ben oltre l'83% delle aziende maggiori, quelle tra i 20 e i 49 addetti, esprime un giudizio drasticamente negativo sui canali dell'istruzione. Viene promosso invece l'apprendistato. I segnali positivi arrivano dall’ultimo derivante dall’indagine: più di un imprenditore su tre (36,1%) ritiene che l'apprendistato, con il suo mix di studi teorici ed esperienza pratica fatta in azienda, fornisca ai giovani un buon livello di preparazione. Quell’apprendistato su cui il Governo Monti ha puntato, anticipandone di un anno la fattibilità. E dando anche ragione al Miur, che sempre sotto la gestione Profumo, ha accelerato il processo di avvicinamento del mondo del lavoro a quello dell’istruzione. L'impostazione di un canale di formazione duale non va da sé, come lo dimostra l'esperienza della Germania, della Svizzera, dell'Austria oppure il fallimento di quanto proclamato in Francia. Non bastano belle dichiarazioni governativa. Occorre rimboccarsi le maniche, impostare negoziati con gli imprenditori e gli artigiani, formare specialisti, creare un "data warehouse", ecc. ecc.

dimanche 13 janvier 2013

Cattolicesimo in Francia

Sotto casa mia si sta preparando la mega manifestazione del cattolici francesi contro la proposta di legge del governo socialista di autorizzare il matrimonio tra gay e di autorizzare le coppie gay ad adottare figli. Si attende una partecipazione massiccia di folla. Già si sa che parecchie centinaia di bus e di treni stanno convogliando su Parigi folle di cattolici. Dovrebbero sfilare , almeno così si stima, almeno un milione di persone, con cardinali, vescovi, preti, suore, capi e capesse di vario genere. Il gregge cattolico si mette in moto. E' una prova di forza, come quella del 1984 contro la legge del ministro socialista Alain Savary che voleva creare un grande servizio scolastico laico e pubblico. Anche allora ci fu una manifestazione mostruosa di cattolici nelle strade di Parigi, con famiglie e bambini, con slogan di ogni genere e per finire il presidente Mitterrand ha preferito ritirare la legge. Chissà come andrà questa volta? Questa mattina , andando al mercato, ho visto la preparazione: enormi autocarri con altoparlanti potentissimi, la polizia già schierata nei punti nevralgici e decine di gruppi di giovani con T-short di vario colore per il servizio di sicurezza. Infatti non mancheranno le provocazioni. I giovani, maschi imberbi e fanciulle, probabilmente provengono dal movimento scout. Erano istruiti da adulti che facevano loro la lezione. Non c'era nessuna differenza dalle manifestazioni sindacali che ormai adottano lo stesso percorso imposto dalle forze dell'ordine e che passano pure sotto casa. Posso fare i confronti. Suppongo che i responsabili del servizio d'ordine siano gli stessi dei servizi sindacali. Cattolici esperti che passano da un mondo all'altro. Non mi sorprenderebbe. Oppure sono persone che hanno fatto le stesse scuole preparatorie nel servizio pubblico e nelle quali apprendono le regole di base per gestire la folla. In ogni modo la maggioranza dei manifestanti è composta di gente che non ha l'abitudine di scendere in strada e di protestare. Non si tratta di professionisti del dissenso ma del gregge cattolico pilotato dagli integristi e dai politici della destra. La manifestazione sarà una prova di forza della destra che si avvale delle masse cattoliche per essere presente sulla scena politica. La prova di forza che il clero e la gerarchia ecclesiastica francese approvano e sostengono rivela la presenza del cattolicesimo in Francia. Di solito il cattolicesimo francese in questi ultimi decenni è silente, invisibile, non fa parlare di sé, ma esiste, è organizzato ha una presenza diffusa, convive con una cultura laica, rispetta lo Stato, è assimilato. Non ha portavoci brillanti come fu il caso fino ad una cinquantina di anni fa (penso per esempio a Maritain), non ci sono intellettuali cattolici di grande qualità. Questa tradizione è purtroppo scomparsa. Adesso, prevale il pietismo, il grigiore delle chiese semi-deserte, ma ci sono scuole private cattoliche a iosa, associazioni cattoliche che si occupano dell'educazione dei figli, che organizzano pellegrinaggi in continuità a Lourdes. Seppure con pochi preti, perché le vocazioni religiose sono calate, il cattolicesimo francese non è scomparso. Una prova? La rete televisiva ARTE ha diffuso l'autunno scorso una mini serie in sette puntate su cinque seminaristi nel seminario centrale di Parigi ("Ainsi soia-il"). Ho spesso chiesto a amici se il cattolicesimo francese ha una presenza politica, se influisce sulla politica. Nessuno ha saputo rispondermi. Nessuno lo sa. Il cattolicesimo francese non ha più, così almeno mi pare, associazioni e movimenti d'avanguardia, critici, come lo erano la JEC o la JOC (Jeunesse Etudiante Catholique; Jeunesse Ouvrière Catholique). Il movimento dei preti operai è stato massacrato. A Parigi esiste ancora il centro di formazione dei gesuiti che sono come pesci nell'acqua. Anni fa avevo conosciuto e in parte frequentato Michel De Certeau, un uomo brillante, un gesuita che viveva in un suo appartamento. Non mi sembra che oggigiorno tra i cattolici francesi ci siano figure di questa stazza, ma posso sbagliarmi. Qui in Francia il cattolicesimo è meno arrogante, meno trionfante che non in Spagna o in Italia, ma esiste. La manifestazione che si sta preparando sotto le finestre di casa mia ne è una prova. Adesso ore 12 stanno provando gli altoparlanti. Milioni di euro per una prova di forza politica. Signore, perdona loro perché non sanno quello che fanno.

samedi 12 janvier 2013

Periferia

Ho attraversato oggi la periferia di Parigi tra la città e l'aeroporto Charles De Gaulle con la linea B del RER, la rete regionale. Lavori in corso di ingegneria per migliorare questa linea costringevano a scendere alla stazione di Aulnay ed a prendere le navette che facevano la spola con stazioni successive. Nessuna informazione a Parigi alla partenza. Uno strazio: sceso ad Aulnay mi sono trovato di botto tra una popolazione in maggioranza di colore, molte donne sformate con bambini e passeggini.Il percorso in bus attraversava quartieri orribili, dove casette monofamiliari si alternavano con edifici popolari, scatoloni per altro piuttosto ben tenuti a vederli da lontano. Qualche traccia di colore sulle facciate, ma gli architetti e gli urbanisti probabilmente al soldo di speculatori non si sono dati la pena di inventare qualcosa di allettante e dignitoso. Direi decente. Questa popolazione suppongo abiti da quelle parti e tutti si recavano nei centri commerciali della zona. Povertà, tristezza, miseria, fatica. Impressione di squallore. Servizi pubblici slabbrati, mal messi. Perché a farne le spese sono proprio i poveri, quelli che ne avrebbero bisogno dei servizi pubblici, le vittime della società dei consumi? Vale anche per la scuola anche se in quei sobborghi la scuola appare come un'ancora di salvezza, svolge una funzione redentrice, almeno secondo gli insegnanti. E' in terra di missione. Funzione evangelica per mascherare i disfunzionamenti, le bocciature, le ripetizioni, la segregazione.

vendredi 11 janvier 2013

Nomi celebri scomparsi

Gli anni passano anche per me e mi accorgo di prestare sempre più attenzione a chi scompare. So che tra poco spetterà anche a me. In questi giorni mi ha colpito dapprima il decesso di Jean Cavadini a Neuchâtel e poi di Claude Nobs il direttore del festival di Montreux. Non sono mai andato al festival di Montreux, nemmeno quando abitavo a Ginevra, quando sarebbe stato assai facile spostarmi, e non conoscevo Nobs. Però mi piacevano moltissimo i suoi gusti musicali e la programmazione del festival. Sono rimasto impressionato da un servizio televisivo a lui dedicato. Invece ho conosciuto bene il giovane Cavadini, che aveva 4 anni più di me. Nel 1974 siamo andati assieme ad un seminario del CERI a Quebec sulla gestione dell'innovazione nella scuola. Cavadini, un fisico da colosso, l'aveva fatta da padrone ed era tornato scandalizzato da quel seminario perché quel seminario di formazione era imperniato sul gioco di ruoli ed i partecipanti erano invitati simulare riunioni di governi o di stati maggiore della scuola. I promotori del seminario pretendevano che i ricercatori dovevano apprendere tramite il gioco di ruoli a mettersi nella pelle dei responsabili politici della scuola. Cavadini aveva ragione. Ho capito molto più tardi, quando sono andato a Ginevra a lavorare in un sistema scolastico, fianco a fianco dei responsabili del sistema scolastico ginevrino, che non è poi talmente facile riformare la scuola, che ci sono decisioni quotidiane impellenti (mi ricordo per esempio i problemi posti dall'arrivo improvviso di 20 alunni kossovari a Onex, oppure dell'epidemia di una classe di liceo tornata da una passeggiate scolastica in estremo oriente). I responsabili politici della scuola erano tutti i giorni attaccati dai media, dovevano in quattro e quattr'otto risolvere problemi di ogni genere che la ricerca scientifica sulla scolarizzazione nemmeno si sognava (del resto non erano problemi scientifici). Cavadini giovane era già un leader politico che ha poi fatto carriera in Svizzera nel partito liberale, ossia nella destra e che a Neuchâtel per quasi vent'anni ha fatto il ministro (ossia l'assessore) dell'educazione. L'istruzione statale è stata per lui un trampolino di lancio politico e un'ancora di salvataggio. Raccoglieva voti nell'ambiente scolastico, tranquillizzava le famiglie, l'opinione pubblica benestante e privilegiata. Non condividevo le sue idee sulla società e sulla scuola. Non era un uomo molto limpido. Nondimeno la sua scomparsa mi ha turbato.Ho pensato al seminario di Quebec che era stato diretto da André Kirchberger, ora in pensione in Borgogna. Kirchberger non fu proprio brillante,il seminario non fu una riuscita, ma fu un bel momento. Pochi mesi dopo sono stato assunto al CERI e il programma IMTEC di gestione del cambiamento scolastico morì e scomparì dall'agenda del CERI.

jeudi 10 janvier 2013

Anno Nuovo

Finisco di correggere le bozze del mio prossimo libro che uscirà per cura della Casa editrice il Mulino probabilmente ad inizio febbraio. Il titolo "Requiem per la scuola". E' uno sguardo rivolto al futuro. La tesi principale: se il sistema scolastico pubblico non riesce a diventare più giusto nell'istruzione e formazione dei giovani sparirà. Non ha senso tenere in piedi un apparato come questo. Le mine vaganti che lo faranno saltare circolano già: le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Ma si possono neutralizzare, renderle inoffensive. La sfida è mortale, come nei Western. I sistemi scolastici si stanno difendendo a spada tratta per sopravvivere e riprodursi. Ce la faranno? Credo di sì. Sono pessimista sulla riforma della scuola che ho sempre sognato da quando nel lontano 1969 ho iniziato ad insegnare. Dieci anni dopo, nel 1979 ho smesso di fare l'insegnante, dopo avere capito che con le idee che avevo non potevo restare nel sistema scolastico. E' passata tanta acqua sotto i ponti della Senna dopo d'allora e non mi rallegro affatto per quel che vedo nel mondo della scuola, sia leggendo i documenti che circolano nelle rete WEB sia seguendo i nipotini a scuola. Non so che dire: esito a ritenere che la situazione sia peggiorata. Non lo posso affermare. Non ho in mano prove. E' certamente cambiata rispetto ai miei debutti come insegnante.