In queste uggiose giornate di marzo ho letto il libro di Jérôme Ferrari "Le sermon sur la chute de Rome" che ha vinto lo scorso autunno il prestigioso premio letterario Goncourt in Francia. Il volume sarà certamente tradotto in italiano o magari è già stato tradotto. Il romanzo mi è piaciuto. Scrittura magnifica, molto diversa dal francese classico, con frasi lunghe come in italiano, una prosa mozzafiato ma molto leggibile.
Al centro del racconto, un bar di un villaggio della Corsica a metà costa, da cui si intravvede il mare in lontananza, frequentato all'inizio da omaccioni, da cacciatori di cinghiali, da grandi bevitori davanti all'Eterno. Nel libro si racconta la storia del bar ritirato da due giovani locali che interrompono studi brillanti in filosofia, uno su Leibniz e l'altro su San Agostino. La vicenda si intreccia con la storia di una famiglia locale, con zii, nonne, cugini sparsi nel mondo che spariscono uno dopo l'altro, secondo le leggi ineluttabili della natura. Tutti muoiono, in un modo o in un altro, nonostante le ambizioni, le carriere, i successi ed i fallimenti dell'esistenza. Le famiglie, anche le più unite, finiscono per disgregarsi e sparire nei meandri delle genealogie e dei cimiteri.
Il volume termina con la predica di San Agostino sulla caduta di Roma invasa dai Visigoti nella cattedrale di Ippona assediata dai Vandali. La predica è un omaggio a uno dei personaggi chiave del libro, ex-studente brillante, figlio di una numerosa famiglia di emigrati sardi, Libero Pintus.
Alcune pagine sono magnifiche. Ricordo quelle dedicate alla vigilia pasquale, al rito celebrato in Corsica, nella notte del sabato santo accompagnato dal canto polifonico di una corale di Corte.
Anche a me la liturgia del sabato santo mi era molto piaciuta quando cominciavo a capire qualcosa del mondo biblico. Per questa ragione mi è venuta voglia di citare questa lettura e questo libro. Mi sono ricordato di una spedizione primaverile agli inizi degli anni Sessanta, un venerdì santo, a piedi verso un paesotto delle prealpi meridionali ticinesi, Isone, con un gruppetto di scout cattolici di cui ero allora responsabile. La vocazione dell'educatore mi è passata perché ho capito che non era la mia. La notte di venerdì l'abbiamo passata riparati in un cascinale a Gola di Lago. Questo toponimo esprime bene la natura del passo che permette di scendere da Nord a Lugano e di arrivare al Ceresio. Siamo stati svegliati la mattina presto dal proprietario del cascinale semi-diroccato, probabilmente un contadino locale, che ci ha insultati ben bene, a ragione. Siamo ripartiti in fretta e furia per arrivare a Isone a preparare con il parroco la veglia notturna del sabato santo. Ero molto orgoglioso di questa impresa. Mi sembrava di fare una gran cosa, di combinare una buona azione (l'aiuto a un parroco di montagna) con una liturgia impegnativa, zeppa di simboli profondi, per nulla superficiale. Prendevo sul serio queste occasioni, questi testi, un poco come la predica di Sant'Agostino sulla caduta di Roma, nella quale il vescovo di Ippona tenta di spiegare alle sue pecorelle che anche Roma può cadere, che le opere dell'uomo sono fragili, non sono eterne. Restano ogni tanto dei ruderi, dei ricordi, qualche fotografia ingiallita.
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