mercredi 28 février 2018

Patria

Il concetto di patria  mi ha cullato dall'infanzia , mi frulla nella testa anche ora dopo che l'ho mandato al diavolo. La patria c'è e non c'è. Mi sono liberato di una certa interpretazione del concetto di patria, quello che si tentava di inculcarmi nell'immediato dopoguerra ( gli anni dal 1945 al 1950)  e ne scopro un'altra. Siamo legati a qualcosa, a un territorio, almeno mi sento legato. Questa è una domanda che mi pongo. Che cosa mi lega ?






 Ho finito di leggere un romanzo di 632 pagine di Fernando Aramburo intitolato Patria, tradotto in italiano dal castigliano e pubblicato da Guanda  nel settembre 2017. Il romanzo è del 2016.  La patria in questione è il paese basco, e il romanzo racconta, descrive quanto succede in una zona, in un paese molto piccolo, proprio come il mio, l'area che va da Bilbao a San Sebastian, un'area montagnosa, aspra. Tutti si conoscono nei paesotti e la patria comune in moltissimi pagine è il basco, la lingua parlata in quella regione. Il libro è zeppo di termini baschi e alla fine si trova un lessico che permette di capire il testo, ma si intuisce ugualmente  il significato  dei termini anche senza lessico .Quindi la lingua è il comune denominatore che affilia a una patria. I terroristi baschi, quelli delll'ETA, parlavano basco tra loro e rifiutavano coloro che parlavano il castigliano. Poco per volta, leggendo il libro, ho capito il titolo e mi sono reso conto che si parlava di patria, che in ballo era il legame a qualcosa che determinava i comportamenti, i valori, l'ideologia e che alla fine tutto andava in fumo. Gli schemi ideologici rigidi contavano  meno dei problemi singoli, delle persone che li vivono, li soffrono, li sopportano. Tre figure emblematiche nel racconto conducono la danza e fanno saltare tutti gli schemi ideologici: le due figlie e il fratello di una.

Nerea, gioviale, figlia di Bittori che si ribella a tutto. Anche in amore condivide un'esistenza complicata con un donnaiolo, Enrique, detto Quique, un bell'uomo che vuole restare indipendente e  gran amatore di donne.  Poi Arantxa, figlia di Miren che ha  anche lei una vita sconvolta: due figli, divorziata da Guille e per finire paralizzata e in carrozzella per tutta la vita, condannata a comunicare con un iPad , a causa di un ictus cerebrale. Nerea è amica di Arantxa, Bittori di Miren. Il libro narra l'amicizia e la rottura per ragioni politiche tra le due famiglie, quella di Bittori , spagnola ma basca, moglie di un imprenditore locale basco ma nazionalista spagnolo e quella di Miren una nazionalista basca , la riconciliazione alla fine delle due famiglie. Esistono un terzo e un quarto incomodo. Dapprima il marito di Bittori, detto Txato, è assassinato dall'ETA; poi Joxe Mari, figlio di Miren, fratello di Arantxa, diventa militante dell'ETA e infine Gorka, altro fratello di Arantxa,  che va via da casa, dal paese, che ama i libri, la scrittura, è omosessuale, vive con un uomo più vecchio di lui. Libro magnifico che racconta la storia di una follia, la lotta ferocissima dell'ETA contro lo stato castigliano per ottenere l'indipendenza del paese basco, poi la storia di due famiglie, un tempo amiche per la pelle, separate dal dramma dell'assassinio di Txato e infine la riconciliazione, il perdono strappato in punto di morte da Bittori a Joxe Mari, il terrorista.

Non so se il romanzo sia autobiografico o meno. Ho qualche dubbio in merito. Non conosco l'autore, ignoro la sua storia. Forse è Gorka. Ho ripercorso grazie al libro  l'avventura dell'ETA. Mi sono ricordato che quando ero giovane capo scout avevo amici che sognavano l'ETA. Uno è partito più tardi per il paese basco. Non mi ricordo  se per amore di una ragazza oppure per amore del progetto politico. Ho idee confuse a questo riguardo, ma il compagno ha avuto il coraggio di partire. Io vagheggiavo l'indipendenza del mio paese, un molto improbabile  ritorno nel mondo italiano, l'italianità della regione in cui abitavo che aveva una storia locale di violenza, un poco ridicola, la quale  aveva ben poco a che vedere con quanto succedeva allora nel Paese basco oppure nell'Irlanda del Nord.  Però anche da noi tutti sanno tutto di tutti e  si fa in modo di rendere pubblici le questioni private. Ai miei tempi c'erano i quotidiani e si usava la stampa per questa missione. Oggi alcuni quotidiani sono scomparsi. In ogni modo ci si serviva dei quotidiani per fare sapere anche le più insigne stupidate: per esempio i successi scolastici e politici, i voti ottenuti a fine anno oppure la nomina a un posto prestigioso, la partenza per un viaggio verso una meta esotica. Gli annunci funebri erano una lettura quotidiana, come pure la cronaca giudiziaria, quella sportiva, le nascite, i matrimoni dei figli degli amici, gli incidenti stradali e via dicendo. Ritrovo alcune di queste rubriche ben nutrite nella "Provence" , il maggiore quotidiano del Sud-Est francese, ma suppongo che la funzione informativa qui sia diversa. Sono scappato da quel mondo e non so come si regolano oggigiorno le vicende personali delle varie tribù che convivono in quel lembo di terra che è la parte meridionale elvetica delle Alpi incuneata nella Lombardia. Lì si parla una specie di italiano e una volta si usavano tantissimi dialetti. Si capisce benissimo l'italiano ufficiale della RAI o il toscano, ma il dialetto prealpino ( che non è la koinè pre-alpina se ho capito giusto), diverso da vallata a vallata,da città a città,  è davvero la lingua madre. Fino ai sei anni credo di avere parlato solo in dialetto. Ho continuato a discutere in dialetto con i genitori fin quando sono stati in vita. L'italiano l'ho appreso a scuola. Prima lingua straniera! Capisco l'importanza che gli indipendenti baschi attribuiscono al basco . Ho ricevuto una volta a  Ginevra i responsabili del centro di ricerca scientifica sulla scuola di San Sebastian che incontravano grosse difficoltà tecniche nel tradurre in basco i test dell'indagine internazionale  PISA promossa dall'OCSE sulla valutazione di alcune conoscenze dei quindicenni. Il questionario di matematica era molto più lungo di quello catalano o castigliano. Volevano accertarsi di avere ragione nell'esigere che gli strumenti d'indagine fossero in basco. Più tardi ho scoperto che nelle scuole primarie senegalesi si insegnava in francese ma tutti, alunni e insegnanti parlavano invece il wolof, molti insegnanti conoscevano a malapena il francese. La patria è anche la lingua che si parla.

Il romanzo di Aramburu mi ha per prima cosa interpellato sulla mia vita quotidiana. Ho studiato, ho insegnato qualcosa nel mondo in cui sono nato. Mi hanno fatto capire  che la patria era qualcosa di più grande ma sono scappato via. Non proprio come Gorka, l'omosessuale, scappato dal villaggio a Bilbao, che è pur sempre nel paese basco,  e che ha finito per lavorare in una radio. Non è stato il mio caso. Ho abbandonato l'insegnamento. Sono partito, sono andato via anch'io. Anche nella mia scelta c'era una dimensione familiare, come nel romanzo.

Non sono mai stato patriottico. Provo tuttora molto fastidio di fronte alle manifestazioni patriottarde. I cosmopoliti, i senza patria ci sono e hanno sempre pagato un caro prezzo. Affascinano. Penso al libro di Ursula Hirschmann sorella dell'economista Albert e moglie di Altiero Spinelli, intitolato " Noi senza patria", pubblicato dal Mulino nel 1993. Poi mi viene in mente un'affermazione della filosofa USA Martha Nussbaum che in un'intervista ha dichiarato che la sua patria si trova laddove sta il suo gatto. Mi piace. Le radici ci sono e si tratta di equilibrare i legami con la terra di origine e la libertà di  andarsene altrove , di essere spiriti liberi, indipendenti, di pensare come si vuole, di scegliere gli amici. I gatti si muovono poco anche se sono liberi di girare dove vogliono in casa, si affezionano a un angolino, laddove c'è qualcuno che li nutre, che li accarezza, e sono riconoscenti.  tornano sempre dove stanno bene. Non è sempre il caso con gli umani.



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