Leggo sul Sussidiario di oggi 27 gennaio un'intervista fatta ad Attilio Oliva sull'apprendistato in Italia. Oliva riferisce di uno studio recente della fondazione TreLLLe che presiede sull'apprendistato e la sua organizzazione in Germania. Il punto di confronto per Oliva è la Germania dove l'apprendistato funziona da secoli, dove molti studenti che finiscono il liceo e conseguono la maturità invece di andare all'università intraprendono un apprendistato, dove un apprendista può fare carriera sia nelle imprese sia nella vita politica e giungere , se ne è capace, se ha le qualità a posti di prestigio e perfino andare all'Università.
Sorrido quando leggo cose del genere che sono del resto tutte vere. Anni fa ho indotto Attilio Oliva a organizzare un'indagine sulle scuole tecniche superiori o "Fachhochschulen" come si chiamavano allora in Germania o "Universités technologiques "( Acronimo IUT, ossia "Instituts Universitaires technologiques"come si chiamano in Francia ( ce ne sono ben due a Grenoble in Savoia). Adesso in Germania si chiamano "Università di scienze applicate".
A quei tempi, una decina di anni fa, non c'era ancora Rocca con il quale Oliva oggi lavora. L'argomento dominante per opporsi allo sviluppo dell'apprendistato in Italia era allora la dimensione delle aziende: in Italia la produzione è asssicurata da piccole aziende, troppo piccole per formare apprendisti. In altri termini il santo non vale la candela.
Nel 2001, quando ero , in modo molto ingenuo, membro del gruppo di consulenti diretto dal professor Bertagna, costituito dal neo-Ministro signora Moratti come gruppo di consulenti sulla riforma della scuola, ero riuscito ad organizzare una spedizione del gruppo a Lugano per informarsi sull'organizzazione dell'apprendistato. Fummo accolti a Lugano dall'allora direttore della formazione professionale del Canton Ticino signor Nembrini ed andammo anche a Gordola, un paesino alla periferia di Locarno, dove tra l'altro venne a riceverci l'assessore del Canton Ticino per l'istruzione che in effetti sarebbe una specie di Ministro dell'istruzione perché in Svizzera l'istruzione è decentralizzata ed ogni cantone ha il proprio sistema scolastico (Il Canton Ticino ha circa 350 000 abitanti, meno della città di Milano), a visitare il centro di formazione degli apprendisti di tutte le professioni della casa, costruito con la cooperazione, anche finanziaria, delle ditte di costruzione. Perché questa visita non ha prodotto nulla, fu del tutto sterile?
In Svizzera vige l'apprendistato, ossia la formazione duale o meglio detto la formazione in alternanza scuola-lavoro di cui parla proprio Oliva e questa formazione ha una legislazione unica, federale anche se tutti i Cantoni sono liberi di applicarla a loro gradimento. Infatti nel Sud della Svizzera non si lavora come al Nord delle Alpi, esattamente come è il caso in Italia. In Trentino non si lavora come in Sicilia, non ci sono le stesse materie, gli stessi ritmi di lavoro, lo stesso clima, anche se in un certo senso un carpentiere in Sicilia o un odontotecnico fanno le stesse cose di un carpentiere nel Trentino o in Alto Adige, dove nevica assai per cui i tetti si fanno in un certo modo che non è quello che è in voga a Messina o a Palermo. Però un carpentiere siculo che si trasferisce in Alto Adige dovrebbe riuscire ad inserirsi in una impresa di carpenteria locale, adattarsi e lavorare come ha appreso in Sicilia. Il suo diploma professionale dovrebbe essere riconosciuto anche lì. Questa la ragione per cui in Svizzera l'apprendistato e la formazione professionale sono il solo settore scolastico retto da una legislazione federale imposta dalla Costituzione nella quale non ci sono altri articoli riguardanti la scuola.
Ma cito la Svizzera anche per un altro fattore: nel Canton Ticino, dove il modello dell'apprendistato è del tutto simile a quello germanico, la legislazione che regola la formazione professionale e l'insegnamento in alternanza è tutta in italiano. Non c'è nemmeno il problema della comprensione dei testi per un Italiano. Il Canton è piccolo, le aziende sono minuscole, eppure l'apprendistato o la formazione duale funzionano al punto che molte famiglie di frontalieri lombardi o piemontesi inviano i propri adolescenti ai centri di formazione in alternanza ticinesi dove , come succede in Italia, si ottiene anche un contratto di lavoro con una azienda, per apprendere una professione. Questo succede a Porlezza, a Domodossola, a Pallanza, a Cannobbio, ecc. dove ci sono adolescenti che tutti i giorni fanno il viaggio per recarsi nel confinante cantone elvetico di lingua italiana per apprendere una professione con la speranza non troppo recondita di trovare alla fine dell'apprendistato, dopo avere superato con successo gli esami finali, un posto di lavoro ben retribuito in Svizzera. Ma questo è un aspetto secondario, Vorrei solo segnalare il fatto che il modello della formazione in alternanza c'è nella Svizzera italiana, che non è il caso di guardare alla Germania, che le percentuali degli apprendisti in Svizzera e nel Canton Ticino sono grosso modo simili a quelle tedesche. Infine vorrei segnalare a Oliva che a Lugano esiste pure una Università di scienze applicate ( SUPSI, acronimo che vuol dire Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana) e che quindi a due passi da Milano, in quel cuneo di Svizzera inserito nella Lombardia e nel Piemonte, esiste proprio quanto Oliva descrive. Non è dunque necessario fare il viaggio in Germania per informarsi sulla formazione duale o in alternanza tra scuola e lavoro.
Infine vorrei aggiungere che già una trentina di anni fa l'OCSE aveva invitato la classe dirigente italiana ad occuparsi di questa questione ma non se ne è fatto nulla. Nella mini-pattuglia di consulenti del Ministro Moratti fui incaricato di occuparmi della formazione professionale ed al rendiconto finale a Roma, nel dicembre 2001, avevo parlato di questi aspetti nei pochi minuti che mi erano stati riservati, raccogliendo molti applausi da un numerosissimo pubblico, ma non successe nulla. Poi vorrei dire che a Ginevra , dove ho concluso la mia attività professionale tra il 1997 e il 2005 si è pubblicato perfino un insieme di indicatori della formazione professionale che sfatava molti miti, ma un insieme simile che comporta un lungo lavoro di preparazione non esiste in Italia.
Termino in bellezza: in molti rami della formazione duale in Svizzera esiste una fila d'attesa per iscriversi. Ci sono troppi candidati e non abbastanza posti . Esiste pure il contrario. Ma la presenza di file d'attesa, talora di due anni dopo la scuola media prima di iniziare un apprendistato è la prova migliore che nella zona insubrica e nel paese confinante con l'Italia non esistono molti nemici dell'apprendistato.
mardi 27 janvier 2015
jeudi 22 janvier 2015
Perché le politiche scolastiche sono talmente sterili e producono scarsi progressi?
Un articolo in inglese pubblicato nella Neswsletter della Fondazione Fordham "The Education Gadfly Weekly", volume 15, numero 03, il 21 gennaio 2015. La Fondazione Fordham tende piuttosto a destra ma è assai critica nei riguardi del sistema scolastico e della politica scolastica del governo USA. Inoltre propaganda e difende a spada tratta le Charte Schools nei vari sistemi scolastici degli stati USA
Non ho voglia di tradurre in italiano questo articolo che mi sembra ingenuo e poco convincente. Convengo che il corpo insegnante abbia un ruolo importante per gli esiti della scolarizzazione ma non tutte le responsabilità sono sue. Inoltre è vero che esiste un gap enorme tra politiche scolastiche e pratiche scolastiche. Le scuole si difendono, mentono, barano quando si chiedono loro informazioni sull'andamento dell'insegnamento o sui risultati scolastici. Ma la soluzione proposta da Paige non convince. Credo ci sia poco da fare. Ci sono scompensi numerosi ed occorre rassegnarsi. Il massimo che si può fare è di prestare aiuto e magari mezzi ( ma non ne sono sicuro) agli insegnanti che si danno molto da fare, migliorare la loro formazione ( non solo quella iniziale) , pagarli meglio e poi istruire i dirigenti, tenerli al corrente di quanto scopre la ricerca scientifica sulla scolarizzazione e l'apprendimento, ed infine migliorare l'organizzazione del sistema scolastico. In poche parole direi che sarebbe bene instaurare un rapporto di fiducia tra dirigenti ed insegnanti.
Paige , l'autore, è un repubblicano, un afroamericano, che fu ministro dell'istruzione in uno dei governi Bush dal 2000 al 2005 ( prima di Obama).
Editor's note: This editorial originally appeared in a slightly different form in the Austin American-Statesman.
At noon on Tuesday, January 13, the Texas Legislature convened its eighty-fourth legislative session. Like many previous legislative sessions, many hours of discussions will be devoted to improving Texas education. Like many previous legislative sessions, legislators will no doubt enact new state education policies aimed at improving Texas schools.
Despite massive new education policies from previous legislative sessions, and after decades of effort, tons of money, and volumes of educational punditry and political debate, we are left with relatively little to show for considerable effort. As we go forward with future education policies, it seems wise to pause and ask an important question. Why has so much previous education policy delivered such meager improvement?
Indisputably, that question has multiple answers. But one of the most critical answers is too often overlooked: Previous state education policy has been minimally integrated with education practice. Put another way, there has been, and there still is, a cavernous gap between education policy and education practice. In order for education policy to be an effective catalyst for improved school outcomes, it must influence education practice—and education practice is under the direct control of education practitioners. These practitioners have meager influence on education policy.
Previous state and federal education policy has ignored a cardinal truth: When schools improve, that improvement will be primarily due to the actions of people in the schools. Practically speaking, what this means is that teachers, principals, superintendents, and school board members are the major arbiters of school improvement, as they ultimately determine whether education policy has the desired efficacy or not.
Education policy, which consists of the laws, rules, and regulations enacted to govern the operation of our system of education, is primarily formulated in state settings and tends to be heavily influenced by the work of education think tanks, education lobby agencies, education advocacy organizations, and the practical realities of political expediency. Those who actually teach the children, manage the schools, and do the work of school boards are minimally represented in this process. This unfortunate truth creates a dual negative.
First, education policy created in this manner cannot benefit from the perspective of those who know the educational environment best. School reform policies constructed by policy elites, politicians, and others outside the school system are rarely based on sufficient understanding of the school environment and its unique cultural infrastructure to have the intended effect. Absent sufficient practitioner participation, policymakers’ understanding of schools is inevitably based on assumptions, theories, and notions about how education should be, which are seldom representative of real-world experiences in schools. More perilously, as outsiders, policymakers tend not to appreciate the complexity of teaching and learning in today’s schools. For education policy to be successful, it must be anchored in a realistic understanding of the school environment, and this cannot be achieved without authentic involvement and buy-in from those in the schools.
Secondly, and even more grievously, school professionals who are excluded from meaningful participation in the formation of education policy are likely to feel little ownership of the policy’s success. This leaves the policy void of meaningful practitioner advocacy. Further, education policy void of appropriate practitioner involvement fuels practitioners’ sense that the policy is being imposed upon them by those who not only do not fully understand the educational challenges, but also do not face any consequences for the success or failure of the policy. Some practitioners feel that their exclusion from the education policy development process demonstrates a fundamental indifference to the challenges that school personnel face, and even worse, an underlying disrespect for what they do and what they know.
Given the lack of meaningful practitioner participation, it seems unsurprising that educational practitioners greet so many policy changes with lackluster enthusiasm. To them, the issue is compliance, as opposed to improving student performance. The difference between responding to educational policy as a compliance issue vs. responding to it as an opportunity to improve student learning is not at all trivial. The level of advocacy within the school and school system is a major determinant of the quality of the results that will emanate from the reform policy.
This is not to understate or undervalue the importance of the work of policymakers. The vast majority of those involved in developing state and federal policy are not only sound thinkers with good intentions, but also experts in many aspects of the education policy landscape and committed to the task of education improvement. Clearly, their efforts are both needed and appreciated. But for policymakers’ goals to be accomplished, the gap between policymakers and practitioners must be significantly narrowed.
Undoubtedly, there are several ways to accomplish this goal. Two approaches come immediately to mind. Each has advantages and disadvantages. The first, an inclusion approach, involves broadening the participation of practitioners in policy formulation to enhance both the quality and quantity of dialogue between policymakers and practitioners. One might argue that teachers, principals, superintendents, and school board members already have advocacy organizations that participate in formulating educational policy. This is true, but with few exceptions, the influence of such organizations on education policymaking is minimal at best.
The disadvantage of this approach is that some such organizations have agendas that are not always aligned—and are sometimes even at odds—with the goal of authentic school improvement. Therefore, care in selecting participating groups is necessary. In fact, the effectiveness of this approach depends on state policymakers’ ability to involve organizations that are genuinely committed to improving the education system. Assuming sufficient awareness of this concern, increasing opportunities for such organizations to participate in educational policy development is a good thing.
The second approach is the empowerment approach highlighted by Richard Elmore and Milbrey W. McLaughlin in their seminal work, Steady Work: Policy, Practice, and the Reform of American Education. This approach involves shifting much of the responsibility for designing policy closer to those whose practice it concerns. Such policy would focus heavily on desired outcomes and on empowering practitioners with flexibility and variability in determining the inputs needed to achieve such outcomes. To be effective, however, this approach requires that there be adequate procedures for monitoring results and assuring accountability.
In summary, the current chasm between education policy and practitioners must be significantly narrowed if educational policy is to drive desired education reform. In the end, education policy is good only to the extent that it is implemented and operated with fidelity and policy implementation and operations are solidly under the control of education practitioners.
Non ho voglia di tradurre in italiano questo articolo che mi sembra ingenuo e poco convincente. Convengo che il corpo insegnante abbia un ruolo importante per gli esiti della scolarizzazione ma non tutte le responsabilità sono sue. Inoltre è vero che esiste un gap enorme tra politiche scolastiche e pratiche scolastiche. Le scuole si difendono, mentono, barano quando si chiedono loro informazioni sull'andamento dell'insegnamento o sui risultati scolastici. Ma la soluzione proposta da Paige non convince. Credo ci sia poco da fare. Ci sono scompensi numerosi ed occorre rassegnarsi. Il massimo che si può fare è di prestare aiuto e magari mezzi ( ma non ne sono sicuro) agli insegnanti che si danno molto da fare, migliorare la loro formazione ( non solo quella iniziale) , pagarli meglio e poi istruire i dirigenti, tenerli al corrente di quanto scopre la ricerca scientifica sulla scolarizzazione e l'apprendimento, ed infine migliorare l'organizzazione del sistema scolastico. In poche parole direi che sarebbe bene instaurare un rapporto di fiducia tra dirigenti ed insegnanti.
Paige , l'autore, è un repubblicano, un afroamericano, che fu ministro dell'istruzione in uno dei governi Bush dal 2000 al 2005 ( prima di Obama).
Why has education policy produced such little improvement?
January 21, 2015
At noon on Tuesday, January 13, the Texas Legislature convened its eighty-fourth legislative session. Like many previous legislative sessions, many hours of discussions will be devoted to improving Texas education. Like many previous legislative sessions, legislators will no doubt enact new state education policies aimed at improving Texas schools.
Despite massive new education policies from previous legislative sessions, and after decades of effort, tons of money, and volumes of educational punditry and political debate, we are left with relatively little to show for considerable effort. As we go forward with future education policies, it seems wise to pause and ask an important question. Why has so much previous education policy delivered such meager improvement?
Indisputably, that question has multiple answers. But one of the most critical answers is too often overlooked: Previous state education policy has been minimally integrated with education practice. Put another way, there has been, and there still is, a cavernous gap between education policy and education practice. In order for education policy to be an effective catalyst for improved school outcomes, it must influence education practice—and education practice is under the direct control of education practitioners. These practitioners have meager influence on education policy.
Previous state and federal education policy has ignored a cardinal truth: When schools improve, that improvement will be primarily due to the actions of people in the schools. Practically speaking, what this means is that teachers, principals, superintendents, and school board members are the major arbiters of school improvement, as they ultimately determine whether education policy has the desired efficacy or not.
Education policy, which consists of the laws, rules, and regulations enacted to govern the operation of our system of education, is primarily formulated in state settings and tends to be heavily influenced by the work of education think tanks, education lobby agencies, education advocacy organizations, and the practical realities of political expediency. Those who actually teach the children, manage the schools, and do the work of school boards are minimally represented in this process. This unfortunate truth creates a dual negative.
First, education policy created in this manner cannot benefit from the perspective of those who know the educational environment best. School reform policies constructed by policy elites, politicians, and others outside the school system are rarely based on sufficient understanding of the school environment and its unique cultural infrastructure to have the intended effect. Absent sufficient practitioner participation, policymakers’ understanding of schools is inevitably based on assumptions, theories, and notions about how education should be, which are seldom representative of real-world experiences in schools. More perilously, as outsiders, policymakers tend not to appreciate the complexity of teaching and learning in today’s schools. For education policy to be successful, it must be anchored in a realistic understanding of the school environment, and this cannot be achieved without authentic involvement and buy-in from those in the schools.
Secondly, and even more grievously, school professionals who are excluded from meaningful participation in the formation of education policy are likely to feel little ownership of the policy’s success. This leaves the policy void of meaningful practitioner advocacy. Further, education policy void of appropriate practitioner involvement fuels practitioners’ sense that the policy is being imposed upon them by those who not only do not fully understand the educational challenges, but also do not face any consequences for the success or failure of the policy. Some practitioners feel that their exclusion from the education policy development process demonstrates a fundamental indifference to the challenges that school personnel face, and even worse, an underlying disrespect for what they do and what they know.
Given the lack of meaningful practitioner participation, it seems unsurprising that educational practitioners greet so many policy changes with lackluster enthusiasm. To them, the issue is compliance, as opposed to improving student performance. The difference between responding to educational policy as a compliance issue vs. responding to it as an opportunity to improve student learning is not at all trivial. The level of advocacy within the school and school system is a major determinant of the quality of the results that will emanate from the reform policy.
This is not to understate or undervalue the importance of the work of policymakers. The vast majority of those involved in developing state and federal policy are not only sound thinkers with good intentions, but also experts in many aspects of the education policy landscape and committed to the task of education improvement. Clearly, their efforts are both needed and appreciated. But for policymakers’ goals to be accomplished, the gap between policymakers and practitioners must be significantly narrowed.
Undoubtedly, there are several ways to accomplish this goal. Two approaches come immediately to mind. Each has advantages and disadvantages. The first, an inclusion approach, involves broadening the participation of practitioners in policy formulation to enhance both the quality and quantity of dialogue between policymakers and practitioners. One might argue that teachers, principals, superintendents, and school board members already have advocacy organizations that participate in formulating educational policy. This is true, but with few exceptions, the influence of such organizations on education policymaking is minimal at best.
The disadvantage of this approach is that some such organizations have agendas that are not always aligned—and are sometimes even at odds—with the goal of authentic school improvement. Therefore, care in selecting participating groups is necessary. In fact, the effectiveness of this approach depends on state policymakers’ ability to involve organizations that are genuinely committed to improving the education system. Assuming sufficient awareness of this concern, increasing opportunities for such organizations to participate in educational policy development is a good thing.
The second approach is the empowerment approach highlighted by Richard Elmore and Milbrey W. McLaughlin in their seminal work, Steady Work: Policy, Practice, and the Reform of American Education. This approach involves shifting much of the responsibility for designing policy closer to those whose practice it concerns. Such policy would focus heavily on desired outcomes and on empowering practitioners with flexibility and variability in determining the inputs needed to achieve such outcomes. To be effective, however, this approach requires that there be adequate procedures for monitoring results and assuring accountability.
In summary, the current chasm between education policy and practitioners must be significantly narrowed if educational policy is to drive desired education reform. In the end, education policy is good only to the extent that it is implemented and operated with fidelity and policy implementation and operations are solidly under the control of education practitioners.
dimanche 11 janvier 2015
Restaurare l'autorità
Non vado alla mega-manifestazione in corso oggi pomeriggio 11 gennaio a Parigi. Sono allergico a questo genere di manipolazioni. Le mie emozioni, le mie riflessioni le vivo dentro di me. Non sono indifferente al massacro perpetrato in questi giorni a Parigi. Penso a tutti quelli che se ne sono andati, al dolore dei loro cari. Nessuno ne parla. Tutti gridano "Vive la France", "Vive la République". Hanno bisogno di questo: credere in una grandezza che non c'è più. Rifarsi una verginità. Ho amici insegnanti nelle scuole, nei licei francesi, e tutti ( tutte, perché sono tutte donne) mi hanno detto che il momento di commemorazione pubblica imposto dal governo (nelle scuole si è letto un messaggio del ministro dell'educazione e si è dovuto fare un minuto di silenzio) é stato durissimo e spesso contestato dai giovani.
Ho seguito alla TV di stato francese l'emissione sulla manifestazione in corso intercalata da interviste in piazza e da discussioni tra politici e esperti in sala. Poco fa ho sentito dire dal direttore del "Nouvel Observateur", un settimanale della cosiddetta sinistra, che occorre restaurare l'autorità, che la gente in strada vuole questo. Son saltato in aria. Quale autorità, mi sono chiesto? Quella del Novecento, quella che ho conosciuto quando ero bambino e giovane ubbidiente, quella dell'Ottocento, quella che ha condotto interi popoli al massacro nel 1914 e poi nel 1939? A questo punto ho deciso di scrivere questa nota.
Certamente c' è anche un problema di autorità e le autorità ( bel bisticcio di parole) che ci governano non sono all'altezza. Parlo delle autorità politiche ( non dell'autorità dei padri, questo è un altro problema che mi supera), di quelle che sono elette, che hanno la responsabilità di dirigere gli stati democratici. Restaurare la loro autorità? Che bel regalo, che bel passo a ritroso. Non concordo con questa proposta. Il sistema democratico odierno deve inventare una forma di autorità politica diversa da quella elaborata dagli Ateniesi 500 anni a.c. e poi rimodellata, restaurata più volte, anzi talora perfino mandata al macero per risolvere le crisi sociali.
"Vivere assieme", lo slogan che si ripete in queste ore alla TV , che molti urlano nelle strade in questo momento e che si dibatte spesso nel mio ex-ambiente scolastico, non si risolve con il restauro dell'autorità, ma con l'invenzione di qualcosa di nuovo, di un nuovo tipo di autorità, di uno scenario politico e sociale e culturale diverso. Non so chi possa farlo. Forse una singola mente geniale, forse la collettività forgiata dalle nuove tecnologie della comunicazione, forse la degenerazione stessa dei sistemi democratici vigenti. So che non è nelle mie forze, nella mia capacità farlo, ma so anche che mentre me ne sto andando da questo mondo si dovrà fare qualcosa in questo senso.
Penso alla società senza padri che celebravo nel 68 (il 1968) o giù di lì. Adesso so anche che una società deve avere dei padri ( o delle madri, poco importa), cioè che ci deve essere un'autorità, una competenza, una disciplina, un ordine per vivere assieme. Ma quali? Questi sono bei concetti ma quale è la loro portata semantica? Non quella in vigore nel secolo scorso, celebrata per secoli. Il significante non muta, ma il significato è già un altro in molti settori. Si pensi alla famiglia, all'organizzazione del lavoro.
Adesso è il campo della politica che è sconvolto, che deve fare i conti con questa questione: conseguire autorevolezza. Non certo con le forze armate, con la polizia o l'esercito nelle strade come succede in questo momento qui a Parigi o come è successo negli USA dopo l'11 settembre. L'uso della forza è una competenza dello stato, è indubbio, ma la forza da sola non basta. Nemmeno con migliaia di bandiere sventolate in piazza, negli stadi, davanti alle case per celebrare e condividere un'emozione. Questa strategia si è dimostrata fallimentare.
Non vedo da dove possa venire la risposta. In certi sistemi politici questa è stata demagogica, razzista, egoista, direi fascistoide, anti-illuministica. Ci sono forze politiche che l'hanno divulgata , che ne hanno fatto il proprio programma. Penso alla Lega in Italia, al Fronte Nazionale in Francia, a quel che succede ed è successo in questi ultimi anni nel mio paese d'origine, il Canton Ticino in Svizzera.
Ho seguito alla TV di stato francese l'emissione sulla manifestazione in corso intercalata da interviste in piazza e da discussioni tra politici e esperti in sala. Poco fa ho sentito dire dal direttore del "Nouvel Observateur", un settimanale della cosiddetta sinistra, che occorre restaurare l'autorità, che la gente in strada vuole questo. Son saltato in aria. Quale autorità, mi sono chiesto? Quella del Novecento, quella che ho conosciuto quando ero bambino e giovane ubbidiente, quella dell'Ottocento, quella che ha condotto interi popoli al massacro nel 1914 e poi nel 1939? A questo punto ho deciso di scrivere questa nota.
Certamente c' è anche un problema di autorità e le autorità ( bel bisticcio di parole) che ci governano non sono all'altezza. Parlo delle autorità politiche ( non dell'autorità dei padri, questo è un altro problema che mi supera), di quelle che sono elette, che hanno la responsabilità di dirigere gli stati democratici. Restaurare la loro autorità? Che bel regalo, che bel passo a ritroso. Non concordo con questa proposta. Il sistema democratico odierno deve inventare una forma di autorità politica diversa da quella elaborata dagli Ateniesi 500 anni a.c. e poi rimodellata, restaurata più volte, anzi talora perfino mandata al macero per risolvere le crisi sociali.
"Vivere assieme", lo slogan che si ripete in queste ore alla TV , che molti urlano nelle strade in questo momento e che si dibatte spesso nel mio ex-ambiente scolastico, non si risolve con il restauro dell'autorità, ma con l'invenzione di qualcosa di nuovo, di un nuovo tipo di autorità, di uno scenario politico e sociale e culturale diverso. Non so chi possa farlo. Forse una singola mente geniale, forse la collettività forgiata dalle nuove tecnologie della comunicazione, forse la degenerazione stessa dei sistemi democratici vigenti. So che non è nelle mie forze, nella mia capacità farlo, ma so anche che mentre me ne sto andando da questo mondo si dovrà fare qualcosa in questo senso.
Penso alla società senza padri che celebravo nel 68 (il 1968) o giù di lì. Adesso so anche che una società deve avere dei padri ( o delle madri, poco importa), cioè che ci deve essere un'autorità, una competenza, una disciplina, un ordine per vivere assieme. Ma quali? Questi sono bei concetti ma quale è la loro portata semantica? Non quella in vigore nel secolo scorso, celebrata per secoli. Il significante non muta, ma il significato è già un altro in molti settori. Si pensi alla famiglia, all'organizzazione del lavoro.
Adesso è il campo della politica che è sconvolto, che deve fare i conti con questa questione: conseguire autorevolezza. Non certo con le forze armate, con la polizia o l'esercito nelle strade come succede in questo momento qui a Parigi o come è successo negli USA dopo l'11 settembre. L'uso della forza è una competenza dello stato, è indubbio, ma la forza da sola non basta. Nemmeno con migliaia di bandiere sventolate in piazza, negli stadi, davanti alle case per celebrare e condividere un'emozione. Questa strategia si è dimostrata fallimentare.
Non vedo da dove possa venire la risposta. In certi sistemi politici questa è stata demagogica, razzista, egoista, direi fascistoide, anti-illuministica. Ci sono forze politiche che l'hanno divulgata , che ne hanno fatto il proprio programma. Penso alla Lega in Italia, al Fronte Nazionale in Francia, a quel che succede ed è successo in questi ultimi anni nel mio paese d'origine, il Canton Ticino in Svizzera.
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