Quando si giunge a una certa età e si intravede la fine prossima si riflette sul passato e soprattutto su quel che si è combinato nella vita. Mi capita la stessa cosa. Ho il ricordo, in questi giorni, di momenti in cui mi sono sentito inutile. L'inutilità è una prova e un sentimento politico; non è solo una emozione. In questi giorni ( fine gennaio 2016) ho letto o ho sentito alla TV ( non mi ricordo più esattamente) una persona ( mi pare la Callas, in un documentario su di lei) dire che a un certo punto della vita si è sentita di colpo e che le è parso di avere fallito la propria esistenza.
Ho di colpo associato questa ammissione alla mia esperienza personale. Anch'io mi sono sentito inutile nella vita a un certo punto. Mi sono venuti in mente due episodi. Dapprima all' OCSE quando non ho più avuto a che fare con il progetto sugli indicatori dell'istruzione, ossia tra il 1996 e il l'aprile 1997. Quel periodo fu una lenta , progressiva caduta nell'inutilità. Non servivo più a niente. Non volevo più continuare a occuparmi di indicatori comparati dell'educazione . L'avevo detto al direttore che ne avevo piene le scatole degli indicatori dopo avere impostato il lavoro e prodotto tre insiemi di indicatori internazionali comparati . Mi sembrava di avere dato il meglio nel lancio di questa impresa che continua tuttora. Stavo all'OCSE in attesa di una proposta di lavoro. Chiedevo di prendere in mano un progetto di lavoro ma dall'alto non giungeva nessuna proposta. Non mi rendevo però conto di quanto succedeva. Non capivo i tentennamenti e i ritardi. Il Capo della direzione dell'educazione nonché direttore del CERI Thomas Alexander non mi diceva nulla e continuava a rassicurarmi ma nonostante le mie sollecitazioni mi lasciava crogiolare nel brodo. Nessuna mia proposta conveniva. Nel frattempo avevo una vita da re. Potevo viaggiare, risiedere in alberghi lussuosi, partecipare a riunioni e conferenze prestigiose quanto inutili, essere mandato in rappresentanza a eventi rinomati e eleganti. In pochi mesi sono stato a Monaco, poi a Seoul e a Tokyo, in Messico e a Washington. Avevo una bella vita, ma ero inutile. Le visite e gli incontri erano protocollari, formali. Mentre subivo questo trattamento all'OCSE si riduceva il personale, si licenziava o si incoraggiavano le partenze con buoni di fuoriuscita favolosi. Ci fu chi ne approfittò alla grande. A dire il vero la sensazione di diventare inutile di botto la provai di colpo subito dopo l'infarto che avevo fatto nell'estate del 1995 dopo l'assemblea del progetto INES che si era tenuta, con successo, a Lahti in Finlandia. Dietro le quinte però le tensioni riguardanti il futuro del progetto erano enormi. Il disaccordo sulla gestione del progetto e gli indirizzi da curare in priorità tra il gruppo che aveva pilotato la realizzazione dell'insieme di indicatori e la direzione dell'OCSE era crescente. Capivo che con la malattia il progetto che avevo realizzato con tenacia crollava di colpo. Non avrei più potuto fare quello che avevo impostato negli anni precedenti. La depressione è durata qualche mese poi ho iniziato a cercare uno sbocco, un'alternativa professionale. E sono finito a Ginevra dove è iniziata un'altra avventura , ma questa è un'altra storia.
A Ginevra ho però avuto la seconda esperienza di inutilità, ma non nel contesto dello SRED e del mondo ginevrino. Ero tornato in Svizzera dopo 22 anni di assenza , con un bagaglio di esperienze internazionali. Avevo lasciato il paese dopo essere riuscito ad aprire una finestra sui lavori dell'OCSE nel settore delle scienze dell'educazione. Il mondo elvetico della scuola era allora , negli anni 70, piuttosto chiuso, fatiscente. Puntava tutte le energie sul Consiglio d'Europa dove le scienze dell'educazione erano assai deboli, non facevano e non fanno tuttora male a nessuno, sono insignificanti, e sull'UNESCO dove la ricerca empirica sulla scuola era pressoché assente ma dove il mondo della diplomazia poteva sbizzarrisci. Agli Elvetici andava ben così ma non a me e non a un gruppetto di colleghi elvetici che invece aspiravano a dialogare e a lavorare con la comunità scientifica internazionale operante nel settore scolastico. Per questa ragione i lavori dell'OCSE mi sembrano interessanti e non capivo come mai in Svizzera ci fosse un disinteresse pronunciato per quella produzione che allora , negli anni Settanta, era gratuita ( lo è di meno in meno ora). Dunque nel 1997 rientro in Svizzera e provo una cocente delusione. Come direttore dello SRED ( il Servizio cantonale ginevrino di ricerche sull'educazione) occupavo uno dei rari posti di responsabilità nel settore della ricerca scientifica sulla scuola esistenti in Svizzera. Mi illudevo con l'esperienza che avevo accumulato ed il posto che occupavo di contribuire alla formulazione della politica elvetica nel settore della ricerca scientifica sulla scuola. Invece sono stato marginalizzato. Vivevo isolato a Ginevra. Nessuna informazione, nessun coinvolgimento, nessuna delega. I posti erano occupati o presi da altri. Ebbi solo un paio di opportunità: nel Consiglio romando della ricerca scientifica sulla scuola che si riuniva un paio di volte all'anno e nella Commissione nazionale elvetica sulle statistiche scolastiche. Qualche vagito insomma, ma ero inutile, non servivo proprio a gran che. Le decisioni erano prese senza che fossi né consultato né interpellato Alle riunioni e alle conferenze delle istituzioni nelle quali si delineò il panorama della politica scolastica del XXI secolo erano designati altri delegati. Il clima elvetico nel settore della ricerca scientifica sulla scuola era cambiato, i giochi erano fatti, non c'era affatto bisogno di me.
Si può essere utili in vari modi, per esempio essendo accomodanti con chi detiene il potere e prestarsi ai bassi servizi. Non era il mio caso. Ero percepito come un intruso che si doveva neutralizzare, ignorare, accantonare. L'operazione è perfettamente riuscita.
La spinta per questa confessione è venuto dalla lettura di un articolo di Freeman Dyson che ha recensito il libro "Plank: Driven by Vision, Broken by War" di Brandon R.Brown, Oxford Univesity Press pubblicato il 22 ottobre 2015 dalla rivista "The New York Review of Books". In questo articolo si cita a un certo punto il libro di Albert Hirschmann pubblicato nel 1970 intitolato "Exit, Voice, and Royalty" ( in italiano "Lealtà, Defezione e Protesta" pubblicato da Bompiani nel 1982) tre risposte alternative possibili per le persone con posti di responsabilità di fronte alle magagne, agli errori, alle insipienze dei dirigenti. Il titolo in italiano non è nell'ordine del titolo in inglese. L'ordine esatto sarebbe "Defezione, Protesta e Lealtà", ossia andarsene ( ossia partire, dimissionare) , protestare ma restare nel posto che si occupa oppure essere leali fino in fondo all'istituzione,tacere nonostante il disaccordo per rispettare altri valori che l'istituzione rappresenta. Le tre opzioni mi hanno sempre affascinato e per inclinazione ho spesso protestato, ma me ne sono spesso andato, sono stato qualche volta leale. La vicenda del fisico Max Plank , uno dei grandi della fisica del XX secolo, tedesco, rimasto a Berlino durante tutto il corso della guerra , fedele al Reich pur disapprovando la politica di Hitler, è quella di una figura tragica posta di fronte a scelte cruciali. La vicenda di Plank è paragonata nell'articolo a quella di Einstein e di altri fisici confrontati al dilemma del rifiuto o della collaborazione con il progetto Manhattan di costruzione dell'ordigno nucleare. Einstein non ha collaborato (Exit), ha protestato (Voice) . Cosa avrebbe fatto Plank, logicamente escluso in quanto tedesco dagli inviti rivolti ai fisici emigrati negli USA?
Non ho la pur che minima ambizione di essere comparato a questi nobili e grandi personaggi del XX secolo. Mi sono trovato in posizioni molto meno importanti ma ho dovuto anch'io operare le mie scelte tra exit ( scappare, andarmene), protestare-voice ( restare e alzare la voce) oppure tacere, collaborare- royalty e criticare dall'interno.
Alcuni amici cari mi chiedono costantemente perché me ne sono andato dal Ticino e dalla Svizzera. Credo che la risposta è duplice. In primo luogo per non sentirmi inutile, in secondo luogo per protesta. Ho optato per l'Exit. Soluzione facile? Non credo. Certamente con un costo che ho assunto più o meno coscientemente. In ogni modo non mi pento affatto. Il libro di Hirschman mi è servito come quadro di riferimento, mi ha aiutato a capire le scelte che ho fatto, i costi costi che ho pagato.
Grazie di questa profonda e limpida riflessione, ti citerò subito nella piccola storia di Villa Falconieri che sto scrivendo sul mio blog http://rbolletta.com/2016/01/25/villa-falconieri/
RépondreSupprimer